Aspetti dell’emigrazione lucana

Si ripropongono qui alcuni articoli da me dedicati alle vicende dell’emigrazione lucana e già pubblicati sulla rivista regionale “Mondo Basilicata”.

 

Per una politica della memoria

Quando gli stranieri eravamo noi

di CRISTOFORO MAGISTRO

 

Alcune recenti iniziative sembrano aver aperto anche nel nostro paese la stagione per ricordarci di quando gli “stranieri” eravamo noi.

Fra le più importanti si vuole qui ricordare la fitta serie di iniziative promosse dal Ministero per gli Italiani nel Mondo e la pubblicazione di un’opera, “Storia dell’emigrazione italiana” (Partenze, 2001 e Arrivi, 2002, AAVV Donzelli) voluta dal Comitato nazionale “Italia nel Mondo” che fa il punto sugli studi del fenomeno e offre molteplici spunti e suggestioni per nuove ricerche. E soprattutto l’apertura di nuovi spazi di conoscenza e rivisitazione del fenomeno con le proposte emerse a Gualdo Tadino nel convegno internazionale sui Musei dell’Emigrazione (7-8 giugno 2002) cui ha fatto seguito, il 29 novembre dello scorso anno, l’inaugurazione nella stessa cittadina umbra del primo Museo Regionale dell’Emigrazione.

Insomma: a circa trent’anni dalla fine del ciclo secolare (1876-1976) che ha portato alla formazione di tante Italie fuori dai confini nazionali, l’Italia dei “rimasti” sembra voler riconoscere a quella dei “partiti” il debito morale per l’oscuro, incalcolabile contributo da essi dato nel farci diventare ciò che siamo. Indipendentemente dalla nostra propensione a ricordare e pagare i debiti, il tema – in parte rimosso anche dalla memoria di chi ne è ancora stato toccato – ha dimostrato di non essere di quelli che si fanno dimenticare e si è riproposto alla nostra attenzione con forza propria.

A imporre infatti un ri-pensamento della nostra storia migratoria è stato il fatto che il nostro paese è diventato in questi ultimi decenni terra promessa per milioni di uomini in fuga da guerre e miserie e che il dibattito pubblico e la riflessione individuale sull’atteggiamento da assumere verso gli stranieri si sono intrecciati inevitabilmente a considerazioni sul nostro passato di emigranti. E questo ci ha obbligato a prendere atto che, finite  le lacrime, napoletane o varesotte che fossero, e partiti i bastimenti, di tale passato sapevamo ben poco. Abbiamo voluto sapere veramente ben poco.

Oggi lo sviluppo delle forme di comunicazione nate dalla rivoluzione informatica, rende  possibile restituire alla conoscenza e alla riflessione di tutti i tanti come e i mille perché che portarono i nostri nonni a lasciare case e affetti per andare a cercare fortuna.

E le facce che avevano, i compagni con cui viaggiavano, gli amici e parenti che li aspettavano dall’altra parte dell’Oceano, le topaie che andavano ad abitare, le ferrovie e i palazzi che andavano a costruire, i risparmi che mandavano. E lo sfruttamento e il disprezzo da cui erano circondati nella vecchia e nelle nuove patrie.

Perché un Museo dell’Emigrazione dalla Basilicata

1• Perché la Basilicata è stata insieme al Veneto la regione che fra il 1876 e il 1915 ha dato i maggiori flussi migratori in rapporto alla propria popolazione.

“Un grandissimo movimento di emigrazione si verifica fra i contadini e gli artieri per l’America, e se continua farà presto mancare le braccia ai lavori agricoli”, scriveva nel 1879, a tre anni dall’inizio della prime statistiche governative, il relatore per la regione di un’inchiesta sulle condizioni di vita dei contadini. Quattro anni dopo il prefetto di Potenza spiega quel che sta avvenendo con motivazioni che non lasciano sperare niente di diverso per gli anni a venire: 

“La migrazione all’estero va prendendo serie proporzioni per la condizione miserabile stazionaria della Provincia […]il contadino e l’artigiano è malamente corrisposto nel lavoro che presta e facilmente si fa adescare dal maggior compenso che può trovare in lontane regioni colla probabilità di accumulare un capitale in breve lasso di tempo come spesso ad altri si è verificato”.

Alcune cifre della stessa relazione, rendono bene i parametri di crescita entro cui l’esodo si va sviluppando: nel primo semestre 1881 sono stati rilasciati 1479 passaporti, nei primi sei mesi dell’anno successivo ne vengono concessi 4091. Nel frattempo – si aggiunge – si è dato “impulso senza tregua alla repressione della

emigrazione clandestina” denunziando gli agenti che la favoriscono e facendo rimpatriare, dopo gli accordi presi con i questori di Napoli e Genova, gli emigranti senza regolari documenti. Nonostante questo 440 giovani della classe 1861 – probabilmente fra i più prestanti sui 5542 iscritti alle liste per il servizio militare

che ne vedrà esclusi ben 1658 per insufficienza toracica e bassa statura – sono sfuggiti alla leva proprio con l’espatrio clandestino. Ma non è questa la sede per dar conto della ricca documentazione sul tema.

2 • Perché è importante che la ricostruzione e la riappropriazione simbolica di una vicenda che come una guerra fu storia di tanti e riguardò l’intera collettività nazionale, ma fu agita e vissuta privatamente, spesso in clandestinità  e con un sentimento di vergogna, dai suoi protagonisti, veda attive le piccole patrie (Comuni, Province e Regione) dalle quali più che dal paese Italia gli emigranti patirono il distacco. 

Si tratterebbe della riabilitazione cui  “i giganti ed eroi” (la definizione è di Mario Cuomo) della nostra emigrazione aspirano forse più che a ogni altra cosa.

3 • Perché è ormai opinione condivisa che l’emigrazione italiana ebbe specificità regionali e sotto il profilo delle cause e delle modalità di espatrio e nella scelta del paese di accoglienza e delle forme di aggregazione là messe in essere.

Da quanto finora detto si capisce che l’insediamento dei musei nei luoghi dai quali ebbe origine il trasferimento appare la scelta più naturale e opportuna, sia pure all’interno di un inquadramento nazionale del fenomeno cui dovrebbe provvedere l’auspicata costituzione di un network dei musei dell’emigrazione (cfr. Rete museale sull’emigrazione, in Notiziario NIP – News ITALIA PRESS agenzia stampa – n° 228 – Anno IX, 22 novembre 2002).

È stato detto che se una comunità non ha orgoglio di sé e un’identità che riconosce e mantiene viva, non potrà fare nulla di buono né per sé né per gli altri. Non potrà neanche riformarsi poiché è a partire da ciò che si è stati che è possibile progettare realisticamente il futuro.

La mobilitazione per Scanzano ha dimostrato che orgoglio e coscienza identitaria non mancano alla comunità lucana e questo induce a ben sperare anche riguardo alla sua capacità di operare concretamente per evitare la cancellazione o l’intossicazione della propria memoria storica.

 

Nota: questo articolo è stato già pubblicato in Mondo Basilicata n. 2 del 2004  


Commenti da Facebook

2 Commenti

  1. Cristoforo Magistro

    Si riporta qui, con qualche modifica, l’articolo già pubblicato su Mondo Basilicata Numero 23 | Anno 9 | Marzo 2011 con il titolo redazionale ” March-Maggio l’astute politicien”. 

     

    Da Albano di Lucania al fronte del porto

     

    Il primo maggio 1903 circa 16.000 italiani addetti agli scavi della metropolitana di New York si mettono in sciopero chiedendo la riduzione dell’orario a otto ore e due dollari al giorno di paga.

    Giorni dopo l’agitazione si estende a tutti i settori con lavoratori italiani.

     

    “Essi – scrive il 5 maggio il console Branchi – pullulano in ogni quartiere e aumentano da ora in ora rendendo la situazione oltremodo difficile e pericolosa. Ieri vari leggeri conflitti fra scioperanti e polizia ebbero luogo in punti estremi tanto di New York che di Brooklin per tentativi di intimidazione a quei pochi operai che ancora si trovavano sul lavoro… Come già dissi i leaders dell’agitazione non sono italiani. Essi sono i walking delegates delle Unioni Americane coi quali sarebbe inutile per me tentare di comunicare. Il fermento del resto non ha sede fissa. Esso comparisce a un tratto nei punti più disparati e all’apparire della polizia scompare come per incanto.

    Non si sa, nemmeno dalla Polizia, ove siano i luoghi di riunione”. [i]

     

    L’iniziativa di lotta è naturalmente sostenuta dal giornale socialista in lingua italiana “Il Proletario”, ma anche dai preminenti, cioè dagli esponenti più in vista della nostra colonia, che vi vedono quasi una prova di orgoglio nazionale e si dicono disposti persino a metter mano ai portafogli per aiutarla.

    Nel clima di entusiasmo che accompagna la mobilitazione, grazie al sostegno dell’Unione Federata Centrale del Lavoro, i nostri formano una loro “Unione Scavatori e Minatori”.[ii]

    La solidarietà del sindacato americano, che in mille altre occasioni ha agito come il più odioso avversario degli italiani, non sembra tuttavia disinteressata. Anzi, a parere delle autorità consolari, se adesso questo soffia sul fuoco della protesta italiana è solo per servirsene come testa d’ariete per le proprie rivendicazioni.

    D’altronde, l’Unione americana s’è impegnata a non avanzare richieste fino al primo giugno per ciò che riguarda i lavori alla galleria Rapid Transit ed è quindi contraria all’agitazione dei 4000 italiani che vi lavorano mentre sostiene i 12000 impegnati su altri cantieri.

    Senonchè questa prima, grande protesta degli italiani, che per anni hanno subito in silenzio umiliazioni e maltrattamenti,ha creato tali entusiasmi che nessuno riesce poi a convincerli che alcuni devono tornare al lavoro mentre altri devono continuare la lotta.[iii] Si tenta allora un arbitrato per la ripresa del lavoro al Rapid Transit, l’arteria principale del sistema metropolitano della Grande Mela, ma “data la qualità degli scioperanti, in gran parte contadini, nuovi a cotali sottigliezze, non ancora preparati alle vicende complesse di una lotta condotta con piena coscienza dei fini e dei mezzi”, ogni sforzo è inutile.[iv]

    Per di più durante le azioni di picchettaggio si hanno episodi di violenza e la polizia dichiara d’aver trovato coltelli o pistole su quasi tutti gli italiani arrestati o feriti negli scontri. Nel processo che ne segue il magistrato, scriverà il console, “pronunciò parole severe a nostro riguardo e parecchi giornali si scagliarono contro gli Italiani come contro un pericolo minaccioso per la società americana”.

    Per mettere fine a una situazione che può ulteriormente degenerare se gli appaltatori, come minacciano di fare, dovessero sostituire gli scioperanti con altri operai italiani, il già citato console, non esita a rivolgersi a personaggi di dubbia fama, ma molto influenti nel sottomondo del “padrone system”, cioè del caporalato che nel paese a stelle e strisce sembra aver trovato una più grande patria.

    Contatta allora, fra gli altri, un certo James E. March, italiano americanizzato, leader repubblicano del sesto distretto e Guardiano del Porto di New York. E questi promette di far valere tutta la sua influenza per – dirà – sottrarre gli italiani alla sobillazione e tenerli lontani dalla violenza.

    L’intervento di March che “ha larghissimo seguito di amici e aderenti” si rivela, a parere del console, efficace. Talmente efficace che lo sciopero finisce senza che i nostri lavoratori tornano a riprendere pala e piccone senza aver ottenuto nulla.

    Sarà allora che Enrico Ferri, criminologo di fama e deputato socialista particolarmente interessato alla condizione degli italiani all’estero, accuserà il console di non avere tutelato gli italiani arrestati e feriti dalla polizia e, soprattutto, di essere ricorso alla mediazione di un simile personaggio.

     

    Ma chi era James E. March?

     

    Per il New York Times, che ne ha seguito puntualmente la carriera, si tratta di un “astute politician”, un politicante da strapazzo.

    Dal ritratto, piuttosto critico, che lo stesso giornale ne farà nell’agosto del 1918 occupandosene per l’ultima volta, vale a dire annunciandone la morte, sapremo che il suo vero nome era Antonio Maggio, era nato ad Albano di Lucania nel 1868 ed era sbarcato a New York nel 1880, a dodici anni.

    Probabilmente vi era giunto, aggiungiamo noi, da clandestino poiché nessuno dei 266 emigrati arrivati nella Grande Mela fino al 1900 dal piccolo centro lucano aveva il suo cognome.

    Come tanti altri emigrati di successo, anche lui agli inizi aveva conosciuto la dura vita di strada lavorando come aiutante di un lattaio ambulante, ma presto, grazie al rapido apprendimento dell’inglese, era stato assunto come impiegato alle ferrovie Erie Railroad. Il salto di qualità tuttavia l’aveva fatto dopo essersi iscritto alla Tammany Hall, la potente e corrotta associazione che in cambio di aiuti e assistenza agli emigrati ne raccoglieva i voti per il partito repubblicano.[v]

    Gli inizi della sua carriera sono così ricostruite dalle pettegole cronache del New York Times: nel 1891 partecipa, in rappresentanza del “Marion Club”, ai funerali di un esponente politico[vi]; due anni dopo guida per le Società Italiane Unite un corteo per le celebrazioni di Roma capitale[vii]; l’anno successivo crea un’associazione a suo nome.[viii]

     

    March-Maggio è il classico “bravo ragazzo” dei film sulla mafia italo-americana, un boss con relazioni adatte a “fare favori” a chi ne ha bisogno. E ad averne bisogno sono in tanti e per sdebitarsi s’iscrivono alle liste elettorali e votano. Sono talmente tanti quelli che a lui si rivolgono e da lui indirizzati vanno a votare che nel 1900 il nostro diventa l’incontrastato leader repubblicano del sesto distretto.[ix]

    Imprenditore dell’italianità, organizza e dirige feste e cerimonie di ogni tipo, dal Columbus Day a quella per commemorare l’uccisione di Umberto I. Nel 1900 il bastone da “Grand Marshall” dell’associazionismo italiano è saldamente nelle sue mani e ciò ne fa un reuccio di Little Italy con relativa e pittoresca corte di famigliari e assistenti.[x]

    Un boss al quale anche Theodore Roosevelt che nel 1899 diventa, per pochi voti di vantaggio, governatore dello Stato di New York deve riconoscenza. Durante la campagna elettorale, in onore del futuro presidente degli Stati Uniti a casa March è stato dato infatti un banchetto di cui si parlerà per mesi nella comunità italiana.

    Si sdebiterà nominandolo, appena diventato governatore, Guardiano del Porto di New York.

    Per quanto a noi possa sembrerà discutibile, una tale nomina rientrava pienamente nel programma rooseveltiano di combattere i boss con l’aiuto dei boss.[xi]

    Quello di guardiano del porto era, come sappiamo da film e romanzi, un ruolo importante, delicato e un tantino pericoloso: la sua attribuizione consacrava, oltre a chi vi era designato, l’importanza della comunità di appartenenza.

    E quella italiana, segnala il console nel 1903, cresceva al ritmo di 30-40.000 sbarchi al mese.

     

    Si trattava di disperati disposti a lavorare a qualunque paga e condizione e il buon March ne aiuta quanti più può mandandoli a lavorare nell’impresa dove aveva cominciato la sua carriera, la Erie Railroads. In cambio incassa una spropositata bossatura. Vale a dire un dollaro al giorno trattenuto dalla paga di ogni operaio, in alcuni casi anche di più.[xii]

    La legge prevede che le agenzie di collocamento percepiscano dai loro assistiti il 10% del salario solo sulla paga del primo mese e che diano conto di ogni loro affare.

    March non s’era neppure preoccupato di chiedere la licenza per esercitare tale attività e nel marzo del 1905 è arrestato e condannato a un anno e nove mesi di prigione. Impietosamente il New York Times titolerà allora: “Sing Sing per James E. March il ladro”. [xiii]

    Costretto a dimettersi da ogni carica e ottenuto dal giudice uno sconto di pena in cambio della promessa di filar dritto, ci si aspetterebbe di vederlo sparire dalla scena.

    Non sarà così. I giornali si occuperanno nuovamente di lui quando, ancora fresco di condanna, il nuovo governatore Odell, dopo un viaggio a Roma, gli porta in dono una medaglia in oro della Madonna. Una medaglia fatta benedire dal papa, nel corso di un ricevimento, proprio per il suo amico March, italiano e “fervente cattolico”.[xiv]

    Meritava l’onore della pubblicazione un fatto del genere? Evidentemente sì poiché, miracolato dalla medaglia, March nell’ottobre del 1908 ricompare fra Brooklin e Long Island in veste di gran cerimoniere a fianco del successivo governatore Hugues nella campagna elettorale.

    A un comizio da lui organizzato sono presenti oltre 2000 lavoratori che hanno rinunziato, si sottolinea, alla pausa pranzo di mezzogiorno per ascoltare Hugues.[xv]

     

    Grande amico e protettore di March-Maggio in tutti questi anni è stato Charles F. Murphy, detto Charlie il taciturno, il grande capo della Tammany Hall e della giungla di associazioni e interessi che vi fanno capo.[xvi]

    Quando Murphy sarà accusato di aver costituito fondi neri per mezzo milione di dollari frutto di “donazioni” di appaltatori edili e d’aver capeggiato una banda di ricattatori e assassini, anche la stella di March si avvierà al tramonto.[xvii]

    Più che il trionfo dell’America onesta su quella corrotta della stampa scandalistica che di quel sistema faceva parte a pieno titolo, – si pensi a William Randolph Hearst, il Citizen Kane di Orson Welles, lui stesso aspirante in quegli anni al governo dello Stato di New York, – la loro emarginazione può considerarsi un segno dei cambiamenti in corso.

    La fabbrica del consenso della Tammany comincia a non servire più quando alcune leggi anticipano la nascita di un vero stato sociale rendendone superflua l’opera di assistenzialismo clientelare. Anche perché i nuovi emigrati sono meno sprovveduti dei loro predecessori e in ogni caso,vista la dimensione assunta dalla comunità italiana, possono far riferimento per i loro bisogni a reti famigliari e amicali.

     

    A differenza dei funerali della moglie cui avevano partecipato varie autorità, associazioni e migliaia di persone, quelli di James March sono -stando alla stampa- piuttosto modesti, non altrettanto è la fortuna – valutata in parecchi milioni – da lui accumulata[xviii].

    Forse non aveva avuto torto Enrico Ferri quando aveva sostenuto che incaricare March dell’arbitrato fra operai in sciopero e appaltatori era stato come affidare un gregge al lupo.

     


    [i] Archivio del Ministero degli Affari Esteri (d’ora in poi AMAE), Serie Politica 1891-1916, b. 359, “Sciopero di Italiani a N. Y”, dispaccio del Regio Console Generale al Ministro, 5 Maggio 1903

    [ii] Ib

    [iii] Ib. articolo del quotidiano Evening Post del 24 maggio 1903.

    [iv] AMAE, cit. “Sciopero di Italiani a N. Y”, dispaccio del Regio Console Generale al Ministro, 8 Maggio 1903.

    [v] York Times (d’ora in poi NYT) del 7 maggio 1903, Subway strikers meet. Italian laboreres to vote on 

    [vi] New question of returning to work pening arbitration. 

    [vii] James E. March died, in New York Times del 31 agosto 1918. 

    [viii] 6 A. Lorini, Ai confini della libertà. Saggi di storia americana, Donzelli editore, pp. 119-120 e http://www.nps.gov/archive/elro/glossary/tammany-hall.htm

    [ix]  Funeral of Alderman Oakley, NYT del 30 marzo 1891. 

    [x] 8 Wouldn’t pass the City Hall, NYT del 21 settembre 1893. 

    [xi] Dian’t Hear the Italian’s Story., NYT del 18 settembre 1894. 

    [xii] N.Y.T., 20 settembre 1900 

    [xiii] Big Parade of Italians, NYT del 24 agosto 1900. 

    [xiv] Gore Vidal, Impero, Fazi editore, 2002, p. 592.

    [xv] Port Warden Arrested in War On Padrones. March Supplied Labor to Erie Railroad Without a License, NYT del 15 aprile 1905. Sing Sing for James E. March Burglar, NYT del 25 marzo 1905 

    [xvi] Hughes OFF Up State After Stirring Time. Governor Cheered by Thousands

    in Whirlwind 12-Hour Tour of the City, NYT del 29 ottobre 1908 

    [xviii] Says Murphy Gang “Held Out” $500.000. Hennessy Promises Sensational Disclosures

    About “Political Blackmailers and Assassins”. To Produce Contractors. NYT

    del 31 ottobre 1913.

  2. Cristoforo Magistro

    Il museo dovrebbe essere un punto di raccolta, catalogazione ed esposizione di tutta la documentazione che direttamente o indirettamente si riferisce all’emigrazione, vale a dire un centro permanente di studi regionali sul fenomeno.

    Le prime indagini dovrebbero riguardare ovviamente le cause della prima ondata di partenze – quelle che cominciano ad essere contabilizzate dalle statistiche che prendono avvio nel 1876 – e tentare di misurare il peso che vi ebbero i fattori di tipo strutturale (distribuzione della proprietà terriera, peso fiscale, indebitamento, ordinamenti culturali, crescita della popolazione, ecc.) e quanto pesarono invece le motivazioni di tipo sociologico.

    Da un campionario raccolto da chi scrive di lettere di emigrati negli Stati Uniti a fine Ottocento simili motivazioni emergono nettamente: si emigrava per pagare o – più raramente – sfuggire al pagamento di un debito, per comprarsi della terra o una casa, per dimenticare un amore contrastato, per sfuggire alla giustizia, al servizio militare o al “disonore” di un tradimento che non ci si sentiva – come allora si diceva e, spesso, si faceva – con il sangue. Si emigrava per sfuggire ai galantuomini. Andavano via soprattutto i contadini poiché – scriverà Ausonio Franzoni in una straordinaria inchiesta voluta dal presidente Zanardelli sulle cause dell’emigrazione lucana-: “La classe abbiente li tratta da bruti, il parroco ne discorre come di gente di cui non v’ha merito ad occuparsi, il sindaco, per indurli a parlare, li strapazza e l’esattore li spoglia”.

    Questo accadeva in particolare a Latronico. Il timore di inimicarsi i galantuomini frenava invece i contadini dei Sassi di Matera: “Se noi ci rifiutiamo di lavorare nei campi dei signori, questi, quando si tratta di aiutarci nel disbrigo delle questioni di leva, o di sollevarci da qualche tassa ingiusta, ci mettono mille difficoltà; emigrando, poi, siamo obbligati a lasciare le nostre donne, ed è tanto più facile che pesi su di esse il malcontento di chi ci vide partire”.

    Tante le motivazioni comuni, tante – a ben guardare- anche le differenze fra un paese e l’altro.

    La storia della nostra emigrazione di fine Ottocento è stata una storia di pionieri; di coraggiosi, o incoscienti, che una volta “passato il mare” – così si definiva comunemente la traversata oceanica -, una volta sperimentata la conoscibilità dell’ignoto e capito che il mondo era tenuto insieme dai piroscafi e che bastava scrivere “la direzione” e le lettere andavano e venivano, aprirono la strada a parenti, amici e compaesani.

    La pubblicistica dell’epoca per compiacere l’orientamento antiemigrazionista dei governi e del padronato – soprattutto agrario – che temevano un rialzo dei salari provocato dalla rarefazione della manodopera, enfatizzarono il ruolo avuto degli agenti di emigrazione nel favorire le partenze; un ruolo che le ricerche più recenti hanno notevolmente ridimensionato. Solo sulla base di riscontri puntuali si potrà fare una classifica della forza espulsiva dei particolari fattori che portarono decine di migliaia di lucani a sfidare la sorte per sfuggire a un futuro certo di miseria e soprusi.

    Una volta esplorato, paese per paese, le cause particolari delle partenze si dovrebbero individuare tutti gli emigrati in Argentina, in Brasile e negli USA dalla regione e sviluppare poi un censimento dei loro discendenti.

    Le banche dati consultabili sul sito internet del Museo dell’Emigrazione di Ellis Island e su quello della National Archives and Recovery consentono di sviluppare una ricerca del genere e di individuare gran parte degli emigrati negli Usa fra il 1850 e il 1924. Altre banche dati – ad esempio quello della Fondazione Agnelli – forniscono sostanziosi dati sull’emigrazione in Argentina e Brasile.

      Il museo dovrebbe svilupparsi in due sezioni: partenze ed arrivi.

     

    Elementi da esporre nella sezione Partenze:

    • Scheda corredata da immagini relative ad ogni paese lucano (stampe antiche, stemma municipale, Santo protettore, ecc.) a fine Ottocento con dati sulla popolazione, i notabili, l’economia, le usanze, il dialetto, i costumi, i mestieri e i prodotti tipici, ecc.
    • Paesaggi visivi e sonori dei paesi lucani;
    • Riproduzioni di contratti di affittanze agrarie e di pagamento delle prestazioni d’opera alle varie categorie;
    • Banconote d’epoca con riferimenti al loro potere d’acquisto nel tempo e al cambio lira-dollaro;
    • Documentazione sulla nascita del sogno americano: foto, lettere, articoli di giornale sulle storie di successo;
    • Individuazione dei “pionieri” – uno per ogni paese di destinazione- e ricostruzione della catena migratoria cui diede origine;
    • Manifesti delle compagnie di navigazione, delle navi e biglietti di viaggio;
    • Indagine sull’avvio di corsi serali per adulti analfabeti;
    • Atti di processi a carico degli agenti d’emigrazione clandestina;
    • Atti di processi a carico dei trafficanti di minori addetti ai mestieri di strada; contratti di affidamento di minori agli esercenti di mestieri di strada;
    • Individuazione dell’emigrazione di mestiere: suonatori ambulanti, calzolai e fabbri itineranti, ecc.;
    • Articoli di giornale sulle truffe agli emigranti;
    • Atti di richiamo, atti di matrimonio su procura, richieste di stato libero per chi si sposava all’estero, ecc.;
    • Corredi degli emigranti: abiti, biancheria, oggetti e attrezzi che si portava ( coltelli, rasoi, ex voto, fiaschi, vivande, ecc.);
    • Simulazione dei percorsi da fare da ogni paese al porto d’imbarco;
    • Cambiamenti nell’economia e nel costume indotti dall’emigrazione.

    Elementi da esporre nella sezione Arrivi:

    Allora come adesso si entrava negli Stati Uniti da regolari o da clandestini.

    Si potrebbero simulare con gli opportuni ausili multimediali le due diverse modalità d’ingresso.

    Di particolare interesse sarà la documentazione dei seguenti aspetti:

    • Test medici a Ellis Island e cause di rimpatrio;
    • La ricerca della casa e del lavoro;
    • Condizioni abitative e lavorative;
    • Pregiudizi anti italiani;
    • La “scoperta dell’America” nelle lettere degli emigranti;
    • L’associazionismo regionale;
    • La stampa americana parla dei lucani;
    • Storie di successo;
    • Storie di sfruttamento fra corregionali;
    • Integrazione e impegno politico;
    • L’Italia, la Lucania, il paese d’origine degli antenati visti dagli italo-americani.

    Nota: questo articolo, frettolosamente rivisto e in parte modificato, è stato già pubblicato in Mondo Basilicata n. 3/2004 con il titolo “Per una politica della memoria”. Nel frattempo in alcune regioni italiane sono stati realizzati musei dell’emigrazione. Di particolare interesse è quello di Gualdo Tadino, in Umbria.  

     

     

     

     

     

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