1918, l’anno della spagnola

E’ curioso notare la capacità dei dialetti di “inzupparsi” di qualunque cosa capiti alla comunità e conservarla a futura memoria. Chi scrive ricorda, ad esempio, di aver sentito più volte qualche anziano invocare il ritorno della spagnola con espressioni del tipo: “Ah, quella spagnola puttana che non viene!”. Nelle intenzioni del richiedente la predetta signora doveva sistemare i ragazzini fastidiosi, e solo loro. Come tante altre “maledizioni” che persino madri, zie e conoscenti -le più brave e amorevoli di questo mondo- lanciavano tranquillamente su figli e nipoti appena ne combinavano qualcuna – la joccia si aveva gratis, per le colpe lievi toccava il sagn’ da ’ngann!, ma come niente si passava al butt d’ sagn da ‘ingann!, il temibile fiotto di sangue dalla gola, l’emottisi in piena regola- anche questa, alla lunga, finiva col far ridere i destinatari, ma sollecitava curiosità.

Campagne di Accettura in un’immagine di Henry Cartier-Bresson

Quelle riguardo alla spagnola, -l’epidemia che, si vedrà, di spagnolo aveva solo il nome poichè il governo di Madrid sarà il primo a denunciarla senza censure- più di altre.

Di memoria più corta dei dialetti e delle comunità che in dialetto si esprimono, si è dimostrata, fino a qualche anno fa, la ricerca storica. Tanto che alla terribile pandemia che nel 1918 uccise non meno di venti milioni di persone –ma alcune stime parlano di cinquanta, cento milioni- erano stati dedicati pochissimi studi. Un pioniere è stato nel 1974 Richard Collier con “The Plague of the Spanish Lady”(La malattia che atterrì il mondo, Mursia, 1974). L’ha seguito Gina Kolata con “Flu” (Influenza), edito negli Usa nel 1999 e tradotto in Italia nel 2000 da Mondadori

Le cose sono cambiate dopo l’allarme prodotto dall’influenza aviaria del 1997 a Hong Kong che ha portato gran parte degli specialisti a fissare al 1918 il punto di partenza dell’epidemiologia contemporanea.

Oggi i risultati raggiunti nello studio dell’H5N1, questo il nome dato al virus che la provocò, sono usati per contrastare l’aviaria e possibili pandemie future. Lo stesso virus che nel febbraio di quest’anno si è manifestato in Turchia e, in Egitto, ha provocato la morte di una diciassettenne e il ricovero di sei persone.

Ma richiamiamo brevemente i fatti che diedero origine all’evento. La prima guerra mondiale aveva mobilitato e mescolato individui di ogni continente uniformandone, in qualche misura, i destini. Fu questa la prima guerra totale poichè fece cadere ogni distinzione fra uomini in divisa e civili. Fra le armi in dotazione a vari eserciti c’era ancora il coltello tattico e la baionetta –chi non ricorda il generale Leone del film “Uomini contro”che spiega come usarli? Ma, checchè ne dirà qualche anno dopo Mussolini, non sarà il numero dei combattenti a fare la potenza degli eserciti, ma aerei e dirigibili, navi e sottomarini, camion, carri armati e cannoni dall’aspetto terrificante. Doveva essere –come tante altre nelle intenzioni di chi le provoca- una guerra-lampo e si trascinò per oltre quattro anni.

Come è noto furono gli americani con armi e servizi logistici espressi da un’organizzazione industriale ad avanzata tecnologia a deciderne le sorti. E, paradossalmente, proprio dalle loro fila venne fuori l’epidemia, cioè l’elemento che fin dall’antichità spesso accompagna le guerre. Fu questa a moltiplicare gli effetti letali di quella miscela di antica e modernissima barbarie.

Il mondo in guerra in un’illustrazione del New York Times del 1918

(da http://memory.loc.gov/)

Dieci milioni di caduti sui fronti. Due o, più probabilmente, cinque volte di più per l’influenza.

Come la guerra, anche questa scelse le vittime fra i giovani, ma colpì soprattutto le donne. I maschi, al fronte, entrarono in una diversa contabilità, ma è risaputo che molti non furono abbattuti dalle pallottole nemiche.

Ne dà testimonianza, fra le tante, il comunicato agli ufficiali di collegamento del Comando Supremo che dichiara: «Durante la prima quindicina di settembre (1918, ndr.), nei reparti di prima linea della 3ª armata la somma degli ammalati giornalieri riconosciuti affetti da febbri malariche è salita a 20.000 uomini, dei quali 15.000 presso il solo XXVI Corpo d’Armata».[1]

Alla reticenza delle autorità militari, non solo italiane, nel riconoscere che non di sola malaria si trattava, fecero da contraltare le voci secondo cui l’epidemia era dovuta alla diffusione di virus creati in laboratorio. Se così fosse stato, si sarebbe trattato di una performance particolarmente maldestra degli apprendisti stregoni del tempo, poichè anche la Germania, cui si attribuiva l’impresa, ne fu pesantemente colpita.

L’ospedale di Fort Riley, nel Kansas (da http://memory.loc.gov/)

In realtà sembra ormai accertato che tutto fosse cominciato a Fort Riley, uno sterminato centro di addestramento reclute del Kansas, quando il capocuoco di Camp Funston si presentò all’infermeria accusando forti malesseri. Era il 18 marzo 1918; in una settimana i soldati con analoghi sintomi saranno oltre cinquecento, i morti una quarantina.

Nel centro erano ammassati giovani delle più sperdute contrade d’America. Non quella entrata nel nostro immaginario con il cinema, ma l’America selvatica e isolata dalle case ricoperte di zolle. Sicuramente ad Haskell, la contea di provenienza delle reclute cui sarà attribuita la diffusione del contagio, l’igiene non era in cima alle preoccupazioni delle famiglie di agricoltori costrette a convivere con mucche e pollame.

Un’immagine dell’America rurale

(da http://memory.loc.gov/)

Per una sintetica e brillante ricostruzione del fenomeno a livello mondiale si rimanda, in allegato, all’articolo scritto per “Repubblica” da Maurizio Ricci.

L’Italia fu uno dei paesi più colpiti, ma di spagnola non si parla, tanto per citare un’importante opera non specialistica, in “Malattia e Medicina”(1984), il settimo volume degli Annali della Storia d’Italia Einaudi e solo nel 2002 ha visto la luce la prima opera che studia l’andamento del fenomeno nel nostro paese (Eugenia Tognotti, “La Spagnola in Italia”, Franco Angeli editore). Uno studio da cui apprendiamo che nell’ottobre 1918, il numero dei morti superò di 242.000 unità quello dell’ottobre dell’anno precedente.

A quanto accadde in Lucania accenna, infine, Rocco Mazzarone nel saggio “Ambiente e malattia”.[2] Il suo studio evidenzia la virulenza con cui il morbo si manifestò nella regione (risultata, in linea con vari altri record negativi, la più colpita dopo il Lazio), la fragilità dei suoi presidi sanitari e le inquetudini che fecero riemergere antiche ossessioni sugli “untori”. Le osservazioni di Mazzarone si basano prevalentemente su notizie fornite dalle autorità e, in quanto tali, hanno il pregio di offrire un quadro generale e il difetto di ignorare gli stati d’animo della popolazione in quei frangenti.

Quegli stati d’animo sono forse meglio rappresentati nella corrispondenza che qui si riporterà. Una corrispondenza di carattere privato, ma non scritta da persone comuni poichè mittenti e destinatario avevano ruoli pubblici. A scriverle sono Battista Andriulli di Montescaglioso, Raffaele Janora e Giovanni Magno da Irsina. A riceverle è l’onorevole Nicola De Ruggieri cui questi – i primi due in qualità di suoi amici e capipartito e il terzo come commissario prefettizio – si rivolgono per sollecitarne aiuti.

1918, andamento annuale della mortalità in alcuni paesi del Materano

Residenti nel 1915 a:

Irsina

Montalbano

Montescaglioso

Pisticci

Abitanti

7718

4105

7266

10319

Morti in guerra

71

61

81

117

Morti di spagnola?

320

150

210

140

Popolazione residente e caduti in guerra ( da “La Basilicata nel Mondo”, nn. 4-6,1925).

I dati sulla mortalità sono tratti dai registri anagrafici comunali; l’elaborazione è mia.

Ciò che risalta dalla lettura di questi documenti è la mancanza di strategie per affrontare l’epidemia e l’inutile affannarsi per approntare nei paesi misure di cui sarebbe stato meglio preoccuparsi prima e indipendentemente da ogni emergenza: fornitura d’acqua, raccolta dei rifiuti, disinfezioni periodiche, distribuzione di chinino contro la malaria, presidi sanitari.

Attraverso la guerra e l’evento-spagnola anche le popolazioni di territori come i nostri capiscono di essere parte di un sistema-mondo che il battito d’ali di una farfalla può alterare, ma la Basilicata che si presenta a questi appuntamenti è una terra non molto diversa da quella di due-tre secoli prima. Molti suoi abitanti da una cinquantina d’anni hanno acquisito un “uso di mondo” che consente loro di andare e tornare dalle Americhe, ma la parte più penosa del viaggio rimane quella dal paese d’origine al porto d’imbarco. Nei luoghi d’emigrazione i lucani lavorano a costruire grattacieli e metropolitane, al ritorno in paese riprendono posto nelle case-stalle e tornano a grattare la terra con l’aratro a chiodo e a togliersi la coppola davanti al don.

C’è in questo un elemento di nevrosi collettiva, qualcosa di simile a una scissione della personalità. Lo aveva notato già Carlo Levi scrivendo: «Anche l’America ha, per i contadini, una doppia natura. E’ una terra dove si va a lavorare, dove si suda e si fatica, dove qualche volta si muore e nessuno più ci ricorda; ma nello stesso tempo, e senza contraddizioni, è il paradiso, la terra promessa del Regno.[…]

Per la sua doppia natura, come luogo di lavoro essa è indifferente: ci si vive come si vivrebbe altrove, come bestie legate a un carro, e non importa in che strade lo si debba tirare. Come paradiso, Gerusalemme celeste, oh! allora, quella non si può toccare, si può soltanto contemplarla, di là dal mare, senza mescolarvici. 1 contadini vanno in America, e rimangono quello che sono […] In America, essi vivono a parte, fra di loro-. non partecipano alla vita americana, continuano per anni a mangiare pane solo, come a Gagliano, e risparmiano i pochi dollari: sono vicini al paradiso, ma non pensano neppure ad entrarci.»[3]

Grazie a Francesco Saverio Nitti, ministro dal 1913, la crosta d’arretratezza che secoli d’abbandono hanno buttato addosso alla regione comincia a sgretolarsi -a Muro Lucano si costruisce una grande diga, sorgono centrali elettriche, Monticchio è forestata e, in generale, forestazione irrigazione ed elettrificazione sono considerati aspetti integrati di un unico progetto[4]– ma la guerra blocca il programma di opere pubbliche già cantierabili che dovevano metterla al passo coi tempi. Nel dopoguerra i costi per realizzarli si sono quadruplicati e l’Italia ha altro da pensare. L’ottimismo di facciata del fascismo, semplicemente, negherà l’esistenza di una questione meridionale. Sotto questo aspetto, si può dire che la Basilicata è la regione italiana più danneggiata dalla partecipazione al conflitto.

Tranne pochissimi, i comuni non dispongono di rete idrica e fognaria. All’acqua si provvede attingendo a pozzi e fontane; le feci si raccolgono in una botte che gira per l’abitato. Spesso sono buttate in “scettaturi” all’interno dei paesi; in alcune case-grotta dei Sassi vengono tesaurizzate in apposite buche e si invitano i vicini che ne sono sprovvisti a contribuire a riempirle. Opportunamente trattato, il loro contenuto si usa come concime, in particolare per gli orti. Qualcuno ne fa una piccola industria.

Gli effetti di un regime alimentare povero di proteine e grassi animali si sommano a quelli provocati dalla malaria che dalla primavera all’autunno tormenta la generalità della popolazione.

In un esposto al prefetto del marzo 1918 contro il medico condotto di Montescaglioso si dice che “Egli non ha mai pensato alla profilassi antimalarica né ci pensa in un paese ove infierisce anche d’inverno la malaria”. In contesti socio-ambientali così difficili una vita molto “pericolosa” era garantita a tutti, ma spesso l’inerzia e la scarsa professionalità dei medici vi contribuivano ulteriormente. In qualche caso si arrivava a episodi ai quali si fa fatica a credere. Nell’esposto prima citato, lo stesso ufficiale sanitario è accusato di avere, con la complicità dell’assessore all’annona e del veterinario, messo in vendita in uno spaccio pubblico carni di ovini di sua proprietà morti di carbonchio. Lo ha fatto per tre mesi, al punto che «Nel paese si sviluppò la pustola maligna e molte furono le vittime e ne morì anche un nipote dello stesso […] Ma la brutale malvagità di costui giunse al punto di far diffondere negli altri greggi il terribile morbo mandando ad abbeverare nei corsi d’acqua i suoi animali infetti per la qual cosa ne patirono il grave danno anche gli altri proprietari !».[5]

Come rileverà una ventina d’anni dopo il confinato Carlo Levi, lettere anonime ed esposti erano i mezzi usati dalla piccola borghesia –quella grande usava altre armi e la gente dei ceti popolari non sapeva neanche scrivere- nella guerra per il controllo dei municipi. Spesso il contenuto era calunnioso o riferivano episodi non controllabili.

Il documento su citato è firmato e denuncia fatti verificabili.

A rendere la popolazione ancora più vulnerabile alle malattie contribuiva la carenza negli approvvigionamenti prodotta dalla guerra. Col rincrescimento di chi s’era illuso che almeno nei centri agricoli ci fosse l’essenziale, il commissario appena insediato a Matera scriverà al già citato De Ruggieri: «Disgraziatamente io sono giunto in un momento in cui tutto è scomparso dalla circolazione. Non legumi, non formaggio, non grassi. La carne è diventata una cosa rarissima.[…] La situazione qui è così disgraziata che non ho il coraggio di far venire la mia famiglia. […] almeno sia assicurato il pane e la pasta, primi elementi della vita, mancando qualunque altra cosa».

Se un funzionario di un certo grado e stipendio temeva di non riuscire ad assicurare il necessario alla famiglia, è facile immaginare quali difficoltà si presentavano agli altri. Forse però il commissario venuto dal nord non conosceva ancora l’arte di arrangiarsi che consentiva a tanti suoi colleghi di non preoccuparsi, per lo meno sotto il profilo personale, né del pane né del companatico. Quello che è certo è che nessun altro, prima dell’epidemia, denuncia in tali termini le carenze alimentari. Forse perché la guerra aveva solo aggravato una situazione considerata “naturale” da chi, conoscendo bene i paesi lucani, le carenze non le vedeva neanche. Le cose cambieranno in autunno, quando la spagnola comincia a manifestarsi in tutta la sua pericolosità.

Sui quattro comuni –Irsina, Montalbano, Montescaglioso e Pisticci- dei quali ho, piuttosto a caso, rilevato i dati, proprio a Montescaglioso nel mese di settembre si contano 169 morti, circa dieci volte più che nei mesi precedenti. L’altro centro nel quale l’epidemia infierisce è Irsina, dove già prima della sua comparsa la mortalità era superiore alla media.

La Basilicata contadina in un’immagine di Franco Pinna

L’analisi sul numero e, ove possibile, sulle cause di morte, sarebbe da estendere a tutta la regione, ma già un così piccolo campionario presenta un quadro diversificato su tempi e letalità del morbo nell’aggredire i diversi comuni. Montalbano sarà il centro in cui arriva più tardi, Pisticci il meno colpito. Allo stato attuale, d’altronde, non si riesce a spiegare come mai la Napoli pezzente dei bassi e il Veneto che, fra fronti e retrovie, aveva visto centinaia di migliaia di soldati nelle sue città, avessero riportato meno danni di città come Torino o Milano.

A Matera settembre scorre tranquillamente: pochi casi e decorso benigno. Ma già ai primi di ottobre, il segretario delle Opere Federate di Assistenza e Propaganda Nazionale, uno dei tanti enti nati con la guerra, comunica che in città si ha urgentemente “bisogno di medici, carni, acqua, nettezza”.

Grosso modo le stesse esigenze sono indicate in una relazione sullo “Stato Sanitario della Basilicata Inferiore “ per l’Alto Commissario da cui s’invoca: il rilascio temporaneo di sanitari da parte dell’autorità militare, l’invio di medicinali e disinfettanti, la sistemazione “provvida e continua” dell’annona, la regolamentazione dei servizi di pubblica urbana “provvedendosi col concorso del Governo a garentire le condizioni igieniche generali degli abitati”, facilitazioni per il rifornimento d’acqua potabile nei paesi che ne sono più sprovvisti.[6]

In data 19 ottobre il commissario forestiero di Matera si è eclissato e al suo posto va l’ex segretario delle Opere Federate che scrive: «ben triste è la condizione di una città che deve affrontare una così terribile epidemia mentre la nettezza pubblica è deficiente, le fognature mancano, i disinfettanti si hanno in quantità irrisorie, la denutrizione è generale per l’insufficiente approvvigionamento».[7] Destinatario è il solito De Ruggieri cui si chiede, fra i vari altri “ottenga dal prefetto”, l’invio di un ispettore sanitario del ministero e la fornitura di chinino. Cioè controlli e medicinali cui in passato, con la mediazione dello stesso, si chiedeva di soprassedere per esonerare gli agrari dalla applicazione di reti antizanzare alle masserie e dalla somministrazione di chinino a braccianti e salariati.

Emerge da questi e altri documenti che qui non si riportano, un atteggiamento tipico e di lunga durata degli amministratori locali nei confronti dello Stato. I comuni, che pure destinano cifre significative al pagamento di medici condotti senza grandi profitti per il benessere della popolazione, non mostrano ora nessuna fiducia nei loro confronti. In genere questi sono elementi molto influenti sulle amministrazioni e la lotta per diventare medico condotto, che comporta l’esonero dal servizio militare, s’era fatta più serrata che mai in tempo di guerra e aveva favorito, a discapito della professionalità, quelli di maggior peso politico.

Gli stessi comuni chiedono al governo, in quei mesi particolarmente assorbito dall’impegno bellico, di intervenire su questioni la cui gestione è di loro primaria competenza e dalle quali gli amministratori spesso traggono o, fra polveroni di accuse e contraccuse difficili da valutare, sono accusati di trarre, disonesti guadagni.

L’epidemia colpisce Montescaglioso in un momento di particolare tensione della lotta senza quartiere fra il clan D’Alessio-Salinari, del partito cosiddetto “di sopra” al potere dal 1903, e quello Andriulli-Lacava del partito “di sotto”. Il referente di quest’ultimo è Nicola De Ruggieri, ex presidente dell’amministrazione provinciale e rappresentante del collegio dal 1913. Le carte conservate nel suo archivio e qui utilizzate sono quindi di parte e come tali vanno considerate, ma questo non rende la testimonianza che offrono meno utili a capire il clima di quei mesi.

Nella primavera del 1918 l’amministrazione comunale è commissariata. Il provvedimento, sollecitato dal partito Andriulli, è preso a seguito della morte di Carlo D’Alessio, delle condanne riportate da un assessore che fingendosi commissario per le requisizioni fa contrabbando di grano e dell’allontanamento che ne consegue dal partito D’Alessio-Salinari di Domenico Venezia. Questi è un avvocato che, malgrado risieda a Roma, si è prestato per vari anni a comparire come sindaco lasciando campo libero al genero Francesco D’Alessio e famiglia e dispiacendo gravemente all’altro genero, Battista Andriulli, capo dell’opposizione.

Degli otto comuni del collegio di Matera, Montescaglioso è quello che dà più grattacapi al deputato in carica proprio perché “patria” del D’Alessio. Questi nel 1913 sostiene la candidatura di Gaetano Guida, un agrario semianalfabeta di Bernalda, per tenergli in caldo il posto in parlamento fino a quando non avrà l’età per candidarsi in proprio. Lo scioglimento dell’amministrazione d’alessiana è vista perciò da De Ruggieri come un’occasione per neutralizzare il pericoloso, come si vedrà di lì a qualche anno, avversario. E a questo scopo, con la mediazione dell’ex sindaco Venezia, impone ad Andriulli una pacificazione con il partito d’alessiano. Andriulli ritiene però che la parte sana della vecchia maggioranza si sposterà comunque dalla loro parte e aggiunge di non voler sentire parlare di accordi: «noi non possiamo accogliere nelle nostre file persone che ci farebbero disonore, mentre col perdono si riabiliterebbero persone indegne le quali, data la loro indole, seguiterebbero a fare peggio. I D’Alessio Salinari Parlati devono rimanere scacciati, schivati, schiacciati proprio per la quiete cittadina. E questa mia affermazione viene avvalorata dal compiacimento generale della popolazione per la condanna riportata dai Salinari e dall’indignazione dei nostri contadini che subirono il danno di famelici accaparratori e spoliatori del paese».[8] Il tempo dimostrerà che s’illudeva De Ruggieri pensando di pacificarsi con D’Alessio e sbagliava Andriulli nel credere che la potenza del clan avverso fosse tramontata.

Ma questo, e molto altro ancora, è di la da venire.

Alla vigilia dell’epidemia le acque montesi sono quanto mai agitate, si fatica a trovare un commissario gradito al partito del deputato e il paese è senza amministrazione. Andriulli chiede allora di far nominare commissario il suocero, senza oneri per il comune, «perché egli potrebbe regolare l’andamento dell’amministrazione infierendo al tempo stesso una pugnalata ai nostri nemici. Venezia ha pugnalato Sciacqua (Francesco D’Alessio è chiamato Sciacqualattuga, ndr.) con la defezione dal partito. Ecco spiegato l’anonimo! Meno anonimo perché chiaramente ci sono la mano di Nicola D’Alessio o di Sciacqua. Crepino per ora! […] Comprendo lo stato tuo di…incubazione ma occorrono pure dei sacrifici».[9]

Una quarantina di giorni dopo, nessuno troverà divertente scherzare sull’incubazione.

Nei paesi lucani, come nella Orano algerina in cui Albert Camus ambienterà il romanzo “La peste”, “ci si applica a contrarre delle abitudini”. A creare una particolare mentalità provvede l’ambiente, fisico e sociale, che avviluppa ogni esistenza fin dalla nascita. Ma ad Orano le abitudini, a un certo punto, verranno abbandonate per opporsi al male “con l’etica laica della sincerità individuale e dell’impegno collettivo”. Il dottor Bernard Rieux che lo combatte con disillusa tenacia non si considera un eroe, ma tiene a essere persona onesta. “E’ –dice- un’idea che può far ridere, ma la sola maniera di lottare contro la peste è l’onestà”. Un ex militante politico, agnostico, vorrebbe essere “un Santo senza Dio” e soccorrendo gli appestati ne rimane mortalmente contagiato. Il prete che al manifestarsi del male predicava che erano i peccati degli oranesi ad aver provocato l’ira di Dio, si orienta poi verso una fede con meno certezze. [10]

Nel complesso, in misura diversa, l’intera città è trasformata dalla peste. Nella Basilicata della spagnola non sembra accadere nulla di simile.

Compianto funebre a Salandra (http://www.salandranet.it/)

Le comunità ingessate nelle convenzioni lasciano i morti insepolti per giorni. Gli interratori comunali non ce la fanno ad approntare le fosse che servono, ma nessuno prende zappa e vanga per aiutarli a dare sepoltura almeno ai propri cari. A Irsina non produce effetti neanche la buona paga offerta a eventuali volontari. Il timore di cadere fra i fuoricasta che svolgono compiti così particolari e disprezzati prevale sulla pietà e su ogni considerazione igienica. In paesi di zappatori si invoca l’intervento dei soldati per provvedere all’interramento e di fronte all’atteggiamento del prefetto che, giustamente, lo nega ci si indigna.

A differenza di quanto accade in altre regioni, nessuno pensa a lazzaretti per isolare il contagio o a dare assistenza agli orfani. Ci saranno stati aiuti e atti di generosità di privati e sarà scattata la rete di protezione e consolazione interfamigliare, ma nulla emerge sul piano pubblico. La collettività di fronte all’emergenza non tenta di assumere in prima persona quei compiti che lo Stato in quel particolare momento non è in grado di svolgere. Ogni famiglia è lasciata alle sue pene e i medici locali, oberati di richieste, privilegiano i benestanti.

Comunicazione dell’invio di un medico militare a Irsina,

Montescaglioso e Pisticci (ASM, Carte De Ruggieri)

Di fatto il loro intervento è ininfluente, ma questo si capirà dopo. Nelle circostanze date, ogni discriminazione appare più atroce che mai. Per i paesi più colpiti si chiede l’arrivo di un medico militare.

Quanto alle speculazioni di qualcuno, non c’è niente da aggiungere a ciò che se ne dice nelle lettere di Andriulli e Ianora.

Le stesse comunità all’annunzio della vittoriosa conclusione del conflitto, 4 novembre 1918, non festeggiano né si esaltano in alcun modo. A nessuno dei pochi bambini nati in quegli anni sono imposti nomi patriottici come Italia, Vittoria o Armando. E nessuno si troverà, da grande, a spiegare come mai si chiami Firmato Cadorna come avverrà in qualche regione settentrinale. D’altra parte, a differenza di quanto avvenuto al Nord dove le esigenze della produzione bellica hanno portato anche vantaggi in termini di occupazione e sviluppo, le popolazioni meridionali dalla guerra hanno ricevuto solo lutti e quando finisce non hanno più la forza di festeggiare nulla.

Ma come aveva fatto il morbo tenuto in incubazione nelle case dal tetto di zolle e paglia di Haskell e deflagrato una prima volta a Fort Riley per essere in seguito esportato in Europa con l’adesione alla guerra degli Stati Uniti (6 aprile 1917) che un anno dopo si tradusse in partecipazione massiccia del suo esercito alle battaglie, ad arrivare a Montescaglioso e nei più sperduti villaggi del mondo intero?

Campagna informativa per limitare il contagio da spagnola negli USA

(da http://memory.loc.gov/)

La guerra agì come una gigantesca turbina che, direttamente o meno, miscelò l’intera popolazione mondiale. Chi più chi meno, i nostri soldati entrarono in contatto con quelli, alleati o nemici che fossero, degli altri eserciti. Fecero prigionieri o furono fatti prigionieri. Si ammucchiarono nelle trincee e negli ospedali e furono mandati in licenza a casa. La guerra toccò i paesi non soltanto col ritorno dei propri soldati per convalescenza o, rare, licenze agricole, ma anche con l’arrivo di prigionieri di guerra mandati a sostituire nel lavoro dei campi gli uomini al fronte.

Prigionieri di guerra tedeschi al lavoro in Francia

(da http://memory.loc.gov/)

E’ questo un aspetto poco noto, ma ben documentato, degli esiti della Grande Guerra.

Già nell’ottobre del 1917, ad esempio, Gerolamo Ruffo, principe e presidente del Consorzio della Basilicata Jonica di Bernalda, scriveva: «Per i prigionieri si insiste nel pretendere che le nostre masserie siano dotate di retine metalliche contro le zanzare. Da noi non si trovano legnami, pare che in commercio tali retine non se ne abbiano, non ci sono operai. Risulterebbe molto difficile, se non impossibile, provvederci. Le masserie per lo più sono situate in località alte e non malariche e poi si sa che a mezzo ottobre finisce la stagione malarica. Perché insistere nell’obbligarci a cosa quasi impossibile, quando poi sarebbe quasi inutile? I nostri soldati a Metaponto sono mantenuti accantonati in modo deplorevole e, data la località, veramente pericolosa per la loro salute e non ci si bada. Noi ed i nostri operai viviamo nelle masserie e senza retine…».[11] Lo stesso Ruffo sollecita De Ruggieri a fare sì che i prigionieri siano adibiti ai lavori di sterro di un tracciato dal piano di San Vito al Bradano per consentire l’accesso sulla via pubblica a chi ha terra nelle contrade Selvapiana, San Marco, Campagnuolo, San Salvatore e Vetrano. Secondo il progetto del genio civile, la strada doveva partire da San Vito e arrivare a Ginosa, ma la guerra ne ha bloccato l’esecuzione.

A maggio 1918 è il commissario agricolo provinciale Pasquale Indrio a lamentare l’insufficienza degli uomini assegnati alle aziende del metapontino (mille uomini) e ne chiede l’assegnazione di almeno altri 1500. Nello stesso mese il presidente dell’Unione Democratica Cooperativa di Pisticci invoca per la prima decade di giugno l’invio di due-tre centurie di lavoro formate preferibilmente da militari originari dello steso comune della milizia territoriale del distretto di Taranto e Potenza. A gennaio del 1919 è un agrario bernaldese, Vincenzo Fischetti, a protestare perché nel suo comune non si è ancora raggiunta la quota di seicento prigionieri di guerra promessi dal Commissario Agricolo Provinciale facendo notare che «le altre Province sono state immediatamente sature di essi prigionieri mentre la nostra, che tanto merita più delle altre, non ha fatto altro che… aspettare ed aspettare supinamente».[12]

Non sono dello stesso parere i novantacinque ex combattenti di Montalbano Jonico che il 20 aprile votano un ordine del giorno per chiedere di essere tutelati dalla “ingordigia del grosso proprietario” che -dopo quattro anni di guerra che hanno fatto lievitare i prezzi dei prodotti agricoli al punto che vendendo la paglia si ricava più di quanto non si ottenesse nell’anteguerra dalla vendita del grano e visto fiorire il mercato nero-, «adibiscono ai lavori agricoli i prigionieri, compiacentemente ed abbondantemente forniti dall’autorità, mentre i lavoratori tornati dalle armi non possono trovare lavoro».[13]

Allegato

La spagnola nella ricostruzione giornalistica fatta per “La Repubblica” da Maurizio Ricci.

ROMA – È passata da poco l´alba dell´11 marzo 1918, quando il sergente Albert Gitchell, capocuoco di Camp Funston, a Fort Riley, nel Kansas, si alza dalla sua branda dopo una notte d´inferno. La testa gli pulsa come un tamburo, ha la gola in fiamme e le ossa rotte.

Al diavolo il breakfast per i 26mila soldati, raccolti al campo, in attesa di essere spediti in Europa, nella fornace della grande guerra. Gitchell si affretta verso l´infermeria. Con 39 e mezzo di febbre e una tosse incessante, gli dicono di ricoverarsi nell´ospedale del campo. Il cuoco si alza dalla sedia e s´avvia verso la morte e verso la storia. Il decesso viene registrato 4 giorni dopo e il suo è il primo caso ufficialmente registrato di “spagnola”, l´epidemia più devastante mai sofferta dall´umanità. Virus anomalo, l´agente della spagnola è parente stretto – il più stretto possibile, dicono gli scienziati – del virus dell´aviaria, di cui in questi giorni spiamo le mosse, nell´angoscia che riesca a fare il salto che lo porti ad aggredire l´uomo. Novant´anni fa, quel salto il virus lo fece e, nel giro di un anno, causò più morti dei quattro anni di “peste nera”, a metà del300. La missione dei soldati che s´addestravano a Camp Funston per la guerra era portare la morte: si dimostreranno assai più efficienti di quanto potevano pensare.

Nel grande macello della Prima guerra mondiale, morranno poco meno di 10 milioni di soldati. Ma il virus che i militari americani porteranno dal Kansas colpirà un miliardo di persone, metà della popolazione di allora e ucciderà, secondo il Bullettin of Medical History, fra 50 e 100 milioni di malati, il grosso in tre mesi terribili, fra il settembre e il dicembre del 1918. Nessun paese, nessun continente sarà risparmiato: l´unico posto abitato in cui non furono registrati casi di spagnola è l´isola di Marajò, alle foci del Rio delle Amazzoni, in Brasile.

Quella mattina di primavera del 1918, a Camp Funston, si accorgono subito d´avere a che fare con un´emergenza. Il soldato nella fila dell´infermeria, subito dietro Gitchell, il caporale Drake, autista, ha gli stessi sintomi. E così quello subito dietro di lui, il sergente Hurby. A mezzogiorno, all´ora del rancio, i ricoverati sono 107. A fine settimana 522. Nel giro di pochi giorni ne morranno 40. Il virus, secondo la ricostruzione più dettagliata disponibile, viene da poco lontano: dalla contea di Haskell, a meno di 300 chilometri da Fort Riley. È un´America remota, contadina e poverissima, dove le case sono fatte di zolle d´erba tagliate alla meglio e dove le famiglie condividono lo spazio con polli e maiali, in condizioni non diverse dalla Cina rurale di oggi. È qui che, a gennaio, sono stati segnalati i primi casi di quella che i medici di allora chiamano “polmonite fulminante”. Ma, in un panorama spopolato, dove le comunicazioni sono rare e difficili, l´epidemia è rimasta contenuta. Quando i ragazzi di Haskell, però, la portano nell´affollamento e nella promiscuità dei dormitori di Camp Fulton, esplode come un falò e si diffonde, sui treni e sui camion, lungo le arterie della vita militare. In aprile ha investito 24 dei 26 campi d´addestramento e 30 delle 50 maggiori città americane. Il passo successivo sono le navi che trasportano in Europa i reparti da combattimento.

A maggio, da Madrid, l´Agencia Fabra manda alla Reuters di Londra un cablo in cui informa d´una nuova epidemia esplosa nella capitale spagnola. Nel giro di pochi giorni, 8 milioni di spagnoli sono a letto con la febbre. La situazione non è diversa negli altri paesi: nello stesso mese, la flotta di Sua Maestà britannica, per 12 giorni, non può prendere il largo perché ci sono troppi malati a bordo. Ma la Spagna non è un paese in guerra, non c´è la censura militare e i giornali possono parlare liberamente di questa nuova influenza. E i giornali degli altri paesi parlano di questa influenza “spagnola”. È il nome che gli resterà cucito addosso.

Tuttavia, sono i giorni delle grandi offensive e controffensive sui campi della Prima guerra e l´attenzione del mondo è calamitata altrove. Inoltre, come di norma succede con l´influenza, l´epidemia cala con i primi caldi e questa prima ondata viene rapidamente dimenticata. Ma, nel brodo di coltura delle trincee della Marna e della Somma, nelle spaventose condizioni igieniche della vita al fronte, il virus sopravvive, si rafforza. Soprattutto, muta. Quando, il 22 agosto, riappare a Brest, il grande porto d´andata e ritorno delle truppe Usa, è diventato una furia omicida. In pochi giorni, la seconda ondata è rimbalzata all´altro capolinea della rotta dei soldati, a Boston. Il virus ha investito il mondo. Questa volta, la distanza fra la vita e la morte è poco più che un fiato. I giornali americani raccontano di 4 signore che hanno giocato fino a tarda sera a bridge: la mattina dopo 3 sono morte. Oppure di pendolari che vanno al lavoro al mattino e crollano esanimi sul treno del ritorno la sera. La medicina, che ha appena avuto importanti successi contro tifo, tetano e malaria, brancola nel buio. «Non ne sappiamo di più di quanto i fiorentini del300 sapessero della peste nera», dice un medico inglese di allora, Victor Vaughan. Gli antibiotici arriveranno solo 10 anni dopo, la teoria dei germi è agli albori: nessuno ha ancora mai isolato un virus, ci si accanisce, invece, alla ricerca di un bacillo. Si cerca di curare con chinino, con salassi, con la morfina, con il tabacco, con bagni caldi, con bagni freddi. In Francia, un farmacista lancia il metodo dei due berretti: s´appende un berretto alla maniglia della porta e si beve vino rosso finché non se ne cominciano a vedere due. A questo punto, a letto, una bella sudata e passa la paura.

La verità è che, secondo il più vecchio detto della medicina, semplicemente “chi non muore, guarisce”. È una brutta morte: i polmoni si riempiono d´una schiuma rosseggiante di sangue che arriva ad uscire dalla bocca, dal naso, dagli occhi, dalle orecchie. Da Camp Devens, vicino Boston, dove i decessi per spagnola sono oltre 100 al giorno, un medico, in una lettera, la racconta, in presa diretta, a un amico. “Due ore dopo il ricovero cominciano ad avere macchie scure sulle guance e, poche ore dopo, la cianosi li colora di blu dalle orecchie, via via a tutta la faccia, fino a che diventa impossibile distinguere i bianchi dai neri. La morte arriva in poche ore ed è puramente una lotta per l´aria, fino a che soffocano. È orribile”. Al contrario della normale influenza, la “spagnola” – con un messaggio inquietante per chi oggi studia le misure di prevenzione contro un´aviaria di domani – non uccide i deboli, ma i forti. Oltre metà dei morti registrati ha fra i 15 e i 34 anni.

La guerra non c´entra: il dato vale per paesi belligeranti e non, per uomini e donne (soprattutto incinte). Il tasso di mortalità, che è del 2,5-5% sul totale della popolazione, sale al 20% per i giovani adulti contagiati. La spiegazione, dice la scienza di oggi, è quella che si chiama la “tempesta di citochina”: il sistema immunitario produce anticorpi in eccesso che s´affollano nei polmoni, soffocando le cellule. Più giovane e vigoroso il sistema immunitario, più facile che il contagiato muoia. Di fronte al disastro, e all´impossibilità di combatterlo, l´unica risposta è la paura. Si gira per le città con una mascherina di garza sulla bocca. A New York c´è una multa di 500 dollari per chi starnutisce in pubblico. Altrove è vietata anche la stretta di mano. In tutto il mondo, resteranno chiusi per mesi teatri, sale da ballo, chiese, mercati. Filadelfia, a fine settembre, tiene una manifestazione all´aperto per una sottoscrizione bellica e la sconta con centinaia di migliaia di contagiati e migliaia di morti. Lo stesso avverrà a novembre, per le celebrazioni dell´armistizio. Non ci sono abbastanza becchini, abbastanza casse da morto. Negli Usa, le vittime arriveranno a 675mila. In Italia, dove il primo segnale ufficiale è a Sassona, in provincia di Vicenza, a metà settembre, quando il capitano medico del Secondo Gruppo d´Assalto chiede al sindaco di chiudere le scuole per una “epidemia di tifo”, le vittime sono fra 350 e 500mila e i contagiati 4 milioni e mezzo, su una popolazione di 36 milioni. In Francia, i morti saranno 400mila. In Inghilterra, 200mila. In Germania e in Austria-Ungheria, che qualcuno ha accusato d´aver lanciato il morbo, come arma batteriologica, i morti arriveranno a 2 milioni. Si fanno funerali anche di notte, per smaltire la fila. Ma la censura militare impedisce di saper di più di quanto avviene in Europa. A Torino, in ottobre, la spagnola uccide oltre 400 persone al giorno, ma la notizia non deve circolare per non demoralizzare l´opinione pubblica. Il governo di Vittorio Emanuele Orlando vieta i rintocchi funebri delle chiese e i funerali in corteo.

Quasi mimasse la furia distruttiva della guerra, l´epidemia si quieta con la fine del conflitto. A metà dicembre, con il ritorno a casa delle truppe, anche la seconda ondata s´è esaurita. Ce ne sarà una terza, fra febbraio e aprile del 1919, ugualmente letale, ma, a questo punto, il numero delle persone rese immuni dall´aver superato il contagio in autunno è abbastanza alto da contenere l´estensione dell´epidemia. E, con il virus che ritorna fra gli uccelli, sparisce anche la memoria della spagnola. Come se venisse inghiottita dalle ferite della guerra, l´epidemia, che pure ha ucciso molto di più, scompare dalla coscienza comune, per restare confinata sulle lapidi dei cimiteri. Non ci sono film, non ci sono racconti, non ci sono canzoni. Sono scarse anche le foto. Edvard Munch, in due autoritratti, è uno dei pochi a lasciarcene una testimonianza. Intellettuali come Guillaume Apollinaire e Edmond Rostand, pittori come Egon Schiele ne sono stati portati via in silenzio. Hemingway, Fitzgerald, Faulkner l´hanno tutti incrociata senza mai scriverne. John Dos Passos, che ha attraversato l´Atlantico con i soldati che morivano intorno a lui come mosche, ne accenna solo nella novella “1919” e nelle finte memorie “Tre soldati”. Non tutte le morti, evidentemente, sono uguali.

Nota: questo articolo è un anticipo di una ricerca, in corso di svolgimento, estesa all’intero Materano che sarà pubblicata l’anno prossimo sul Bollettino Storico della Basilicata.

Documenti

Si riportano di seguito quattro lettere scritte da Montescaglioso e da Irsina a Nicola De Ruggieri mentre imperversa l’epidemia. Si tratta di testimonianze che offrono squarci da peste manzoniana su cosa accade nei due centri e sulla mancanza di iniziative di autogestione dell’emergenza nelle comunità stremate da quattro anni di guerra.

Fra la desolazione del presente e l’incertezza sul futuro, la gente comune sa che deve sbrigarsela da solo. I notabili invocano tutto da uno Stato che sanno essere quanto mai assente, ma non fanno nulla se non perseverare nell’eterna lotta fra di loro.

(1)

Montescaglioso 4-10-1918

Carissimo Nicolino,

L’epidemia infierisce sempre allo stesso modo. I casi di morte sono alcuni giorni di più ed altri di meno di 15. Ma l’80% dei cittadini sono ammalati!

E’ deplorevole il modo come le casse mortuarie sono portate al cimitero. All’estremità del paese si fa il deposito e poi quante più ne vanno nella carretta dello spazzamento, specie quelle piccole che si mettono in piedi con la parte più larga sotto in modo che i cadaverini vanno colla testa giù e coi piedi in aria: si trasportano con gran frastuono per l’urto fra di esse al cimitero dove restano insepolte per diversi giorni anche quelle che per la cattiva qualità delle tavole giungono disfatte. E’ un quadro macabro, incivile ed antigienico.

Ieri fra i tanti sono morti: Don Michele Locantore, una mia cugina di 20 anni ed una ragazza sposata da cinque giorni!

Figurati la contentezza degli avversari per la morte di Locantore perchè con la sua fine e con quella del figlio finisce la Banca Gatti. Si chiudono le porte per la morte di intere famiglie!

Temo che Motta non accetti di venire in questa terra di dolori perchè è timido, ed occorre urgentemente pensare pel medico e per chi deve distribuire le medicine essendovi la sola farmacia di Nobile aperta, che non ha medicinali ed i surrogati, cioè acqua fresca, polvere, rosolio rosso per tintura di iodio, ecc., se li fa pagare… in oro!

Ieri ti scrissi nuovamente. Il mio Tonino stasera ha un po’ di febbre e sono tremante.

In fretta ti saluto,

aff.mo

Battistino (Andriulli, ndr.)

 

(2)

Irsina 5-10-1918

Onorevole Deputato,

Tanto il primo che il secondo telegramma spedito a Lei dal R. Commissario fu opera esclusivamente mia perchè mi accorsi subito che il prefetto di Potenza “nicchiava”. Già prima dei telegrammi, mi affrettai a tenerla informata arciconvinto che dal Prefetti e Sottoprefetti ben poco si può ricavare pel semplice fatto che non hanno mezzi a disposizione ed i loro poteri hanno una certa limitazione. A ciò si aggiunga che nella nostra Provincia, specie i funzionari in generale che trovansi a capo di uffici, ben poco si curano dell’adempimento dei loro doveri, e, dobbiamo riconoscerlo, la Basilicata è sempre allietata dallo scarto degli impiegati dello Stato. E quando qualcuno di buono viene nella nostra Provincia, eccolo agitarsi per cambiare residenza quando non gli capiti di adattarsi all’ambiente per esclusivo interesse personale.

Certo qui si muore, e noi dobbiamo essere gratissimi a lei che tanto s’interessa pel nostro Comune in ogni occasione. Mentre il R. Commissario chiede il medico provinciale, medicinali, disinfettanti e un medico militare per sopperire alle tante deficienze sanitarie ed anche la mano d’opera militare pel seppellimento dei cadaveri, il Prefetto ricevuto il telegramma se ne esce meravigliandosi che si richieda la mano d’opera militare pel seppellimento dei cadaveri perchè bisogna servirsi degli operai locali, e si limita ad elargire la somma futile di 400 lire! Il Medico provinciale non può recarsi perchè in servizio, il medico militare nè tampoco! Insomma quel che il Prefetto desiderava era semplicemente questo: “arrangiarci”. Basta dirle che per le richieste del chinino, bisognava commissionarle a Torino previo pagamento per averlo poi?.… fra qualche mese!

Per farle intanto un’idea dello stato sanitario di questo Comune, le comunico che le morti sono copiose. Si cominciò con 4 morti, 8, 10, 12, 18 ed ieri 19 e stamane si arriverà a sorpassarla quest’ultima cifra. E quando si pensi che su circa 6500 abitanti da cui è attualmente rappresentata la nostra popolazione, si verificano 18 o 20 morti al giorno, a Bari, a Napoli, ecc. dovrebbero essere rispettivamente di 450 e 1800!

Riepilogando, solo ieri sera si è avuto un po’ di disinfettanti perchè si mandò persona privatamente a Napoli, ma sono una miseria. Intanto nel Cimitero si accumulano i cadaveri perchè mancano i seppellitori comunali che sono ridotti a tre soli coadiuvati da una donna. Occorrono le fosse e si è dovuto ricorrere alla forza per reclutarne 3-4 anch’essi insufficienti, di modochè i cadaveri la di cui putrefazione incomincia dopo 4 o 5 ore dal decesso arrivano al Cimitero orribilmente pestilenziali ed alle volte il tanfo si spande per le strade per le quali s’opera il trasporto. Ammonticchiate le casse all’aperto nel Cimitero, e restando così per 3 o 4 ed anche 8 giorni, lascio immaginare un po’ a lei cosa succede! Ecco per cui l’operaio avventizio non vuole recarsi a lavorare per non restare vittima di tanto fetore sprigionantesi da 30 o 40 casse!

Questo è dunque in complesso la posizione. Il povero Commissario si dà da fare ma ha bisogno di consigli, di aiuti, ecc. E noi non manchiamo di essergli da vicino. Ma comprenderà che occorrono aiuti da fuori, e principalmente medico, medicinali disinfettanti, chinino e mano d’opera. Cosa questa che le feci telegrafare ieri sera.

Speriamo intanto che il morbo diminuisca d’intensità e scompaia del tutto. Le rimetto i soliti appunti.

Cordialmente la saluto, suo dev.mo amico

R. Janora fu Giuseppe

(3)

Gabinetto del R. Commissario di Irsina

11 ottobre 1918

Gent.mo Onorevole

Io ed i suoi amici di qui abbiamo notato il suo efficace interessamento presso il Ministero per farci ottenere il Medico Militare, due sussidi in complessive lire 1000, e del sublimato allo scopo di reprimere l’attuale epidemia influenzale. Sento perciò il dovere di ringraziarla, a nome anche di questi cittadini, per quanto ha fatto e per quello ancora che potrà fare specie per i sussidi in denaro, che sono insufficienti, ed altri ne occorrerebbero per combattere il morbo.

Il Comune infatti incontra delle spese straordinarie giornaliere di oltre lire 200, avendo dovuto far funzionare due botti per la rimozione delle acque luride (£. 34 al giorno), un carro per l’immondizia, £. 17, un carro per trasporto cadaveri £. 20; otto operai al cimitero per lo scavo delle fosse a £. 12 ognuno, cinque spazzini a £. 5 ognuno, e poi acquisto di calce, disinfezioni, medicinali, ecc.

Per un mese di tali spese si ha la somma di £. 6000 ed il Comune trovasi nelle massime ristrettezze e privo di qualsiasi somma disponibile.

Si spera perciò in un più largo concorso da parte dello Stato, mercè la sua autorevole cooperazione.

Da un paio di giorni, forse in seguito a tante misure di precauzione, si nota una diminuizione dei decessi.

La ossequio distintamente e mi creda

Dev.mo

Giovanni Magno

(4)

Irsina 12-10-918

On. Deputato,

Sono lieto comunicarle che l’epidemia accenna a diminuire.

Il delegato PS di Matera, il tenente medico Dr. Michele Deniculò da Palmira venuto dal fronte, il Maresciallo dei RR.CC spendono tutta l’opera loro nei provvedimenti da escogitarsi per far fronte al morbo.

Lo stesso Commissario anche lui mi segue nei provvedimenti relativi.

Fa schifo addirittura la ferocia con cui i due medici locali pretendono onorari dai poveri infermi.

Il meno feroce è il nostro avversario Dr. Lorusso, ma il Dr. Ferrone è addirittura insuperabile!!

Se dovessimo servirci dell’opera sua nelle prossime elezioni staremmo freschi!!! E’ bene dunque di non dargli mica retta quando ha o avrà bisogno di lei, tanto è inqualificabile e triste il suo modo di agire. Persona più venale al mondo io non ho veduto! E quel che è peggio nonostante che la gente si spoglia per pagare il medico, questi restano sordi addirittura ai pianti ed ai lamenti dei congiunti degli infermi. E’ una vera indecenza.

Vero è che al medico militare tenente Deniculò non lo lascia mai tranquillo e lo manda pei tuguri dove vi è la gente povera che ha bisogno dell’opera sua e che non ha denari per pagare il sanitario.

Ho interessato il R. Commissario perchè allarghi e completi la lista degli aventi diritto all’assistenza medica gratuita perchè i due signori medici di cui sopra pigliano 1500 lire per ciascuno quali medici condotti, e nulla proprio nulla fanno!

Come caposaldo del nostro programma riflettente l’Amministrazione Comunale sarà proprio quella di provvedere ad un’assidua assistenza medica ai derelitti bisognosi!

E ci forniremo di medici che faremo venire di fuori.

Ripeto di tutto quanto le ho esposto sono scandalizzato e … nauseato.

Si abbia frattanto i miei più affettuosi saluti.

Dev. Amico

R. Janora



[1] http://cronologia.leonardo.it/2005.

[2] Si veda “Storia della Basilicata 4. L’Età contemporanea”, Laterza 2002, pp. 502-506. Lo studio di Mazarone si basa su una ricerca di L. Luccioni intitolata “L’epidemia spagnola in Basilicata (1918-1919)” che non mi è riuscito di consultare.

[3] C. Levi, “Cristo si è fermato a Eboli”, ed. Einaudi Torino, 1945, p. 114.

[4] G. Barone, “Mezzogiorno e modernizzazione”, Einaudi, 1986.

[5] Archivio di Stato di Matera, Carte De Ruggieri, pacco Montescaglioso, esposto al prefetto del 28/3/1918.

[6] Ib., pacco Matera, lettera del segretario provinciale per le Opere Federate di Assistenza e Propaganda Nazionale all’onorevole De Ruggieri del 4/10/1918.

[7] Ib., lettera del 18/10/1918.

[8] Ib., pacco Montescaglioso, lettera di Battista Andriulli a Nicola De Ruggieri del 16/3/1918.

[9] Ib. lettera del 18/7/1918.

[10] Ceserani e De Federicis, “Il materiale e l’immaginario”, vol. VIII tomo secondo, Torino 1983, pp. 1896-7.

[11] ASM, Carte De Ruggieri, pacco Bernalda, lettera del 15/10/1917.

[12] Ib., lettera del 21/1/1919.

[13] Archivio Centrale di Stato, Pubblica Sicurezza 1919, b. 109.


I documenti qui riprodotti su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (aut. 5367/x-1-4 del 9/8/2004) provengono dall’Archivio privato Nicolò De Ruggieri e sono depositati presso l’Archivio di Stato di Matera.
E’ vietato farne riproduzioni o duplicazioni con qualsiasi mezzo.

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