Quando l’amore brucia, prima parte

Montescaglioso 1884. Nel settembre dell’anno prima  Vincenzo D. aveva promesso in matrimonio a Francesco C. la figlia Nunzia. Due mesi dopo però aveva interrotto le trattative poiché s’era reso conto che il promesso sposo era un tipo stravagante e di “cervello balzano”. Non si sbagliava, visto che a tale annunciò costui aveva detto a un’altra sua figlia di “ben pensarci prima di negargli la mano di Nunzia essendo egli capace di bruciare quanti più siamo della famiglia con tutta la masseria.”

Nonostante ciò il rapporto fu ripreso. Nei mesi successivi però la ragazza, avendo saputo che lo spasimante aveva una ” malattia occulta nelle fosse nasali “, cioè che era “infermo al naso di sordido male” – così ci si riferiva alle malattie veneree, in particolare alla sifilide -, non ne volle più sapere  e decise di troncarlo definitivamente. La sera del primo giugno quindi il padre chiamò a casa il genitore del fidanzato per dirgli che il figlio “avesse badato ai suoi affari non essendo più possibile il progettato matrimonio”. Non contento, il diretto interessato volle sapere come stavano le cose anche da un cognato della giovane e, alla sua conferma, disse alludendo al suocero: “Egli si crede sconchiudere il matrimonio ed io lo metterò a rovina, farò un omicidio”. Parlando poi con un amico annunciò che avrebbe rapito Nunzia, oppure bruciato la loro masseria e quanti vi si trovavano dentro.

E, in effetti, la mattina dopo Vincenzo D., arrivato alla casa di campagna in contrada Messerluzio, si trovò davanti un cumulo di cenere ancora fumante. Ma approfittiamo della sua denuncia per farci un’idea di com’era fatta e, da ciò che conteneva, delle attività che si svolgevano nella piccola, ma interessante azienda.

Io possedevo – dirà il padrone – una masseria il cui basso di fabbrica e con soffitta di legname, serviva ad uso di animali, ed il soprano, costruito di paglia, serviva di ricettacolo per me e famiglia, nonché per il mio massaro (…) di giorno e di notte. (…) Vi si contenevano tre caldaie, tre mantelli di panno, circa 20 chili di fune, tredici reti, sette sacchi, una tenda per l’aia, tre fiasconi di vino, tre attrezzi aratori, tre collari di legno da buoi, duecento mazzi di fieno, quaranta some di legna, attrezzi per trebbiare, zappe, scuri, una sega, lettiere, campane per buoi ed altro ché troppo lungo sarebbe nominare tutte le minuzie. Il massaro (…) non era quella notte nella masseria, trovandosi a custodire le mie vacche in un punto lontano, dove sono fidate.

Da un altro documento veniamo a sapere che nel fondo c’era anche una ricca vena d’acqua che l’intraprendente massarotto – così venivano chiamati i piccoli proprietari – aveva fatto scavare per alimentare una fontana che dissetava uomini ed animali e irrigava un orto di discreta estensione. Si trattava quindi di un terreno ben sfruttato grazie all’integrazione fra zootecnia, cerealicoltura e coltivazioni orticole rese possibili dalla disponibilità di acqua e letame.

L’incendio provocherà la distruzione di tutto ciò che nella masseria – chiamiamola anche noi così in segno di rispetto – si conservava e danni per circa mille lire, ma soprattutto colpirà al cuore il modello aziendale di cui la casa-stalla-magazzino era il perno. 

Risulterà subito chiaro che l’incendio era doloso e naturalmente si sospetterà in primo luogo di chi l’aveva minacciato. Il sospettato dirà di non aver avuto motivo di vendicarsi della famiglia D. poiché, saputo della rottura del fidanzamento, ne era stato “lieto” poiché a lui non poteva “mancare altra compagna.”

E da veri gentiluomini, i C., la sera dopo l’incendio, erano andati a casa del danneggiato per esprimergli solidarietà. Una provocazione. “A che venire da me padre e figlio? – si chiederà infatti Vincenzo D. –  Forse ad irridere il mio dolore, ovvero a simulare amistà, per sondare ciò che dicevasi, ed allontanare da loro il sospetto del delitto?”

Per respingere ogni accusa il C. figlio dirà che nella notte dell’incendio era stato a casa in quanto sofferente di erisipela al naso. Vi era arrivato alle 11 di sera e alle due di notte era stato visto dai tre operai che con i due fratelli e il padre erano andati a mietere un loro seminato in contrada Tinto. Lui, invece; era partito dal paese per raggiungerli verso le quattro del mattino, dopo aver preso un caffè nella bottega della piazza.

Un alibi dagli orari così dettagliati in un paese in cui pochi conoscevano l’orologio, cioè sapevano leggere i numeri e contare le ore, era di per sé poco credibile; inusuale appariva anche la circostanza del caffè e pretestuoso il fatto che “a causa dell’incomodo al naso” che non gli consentiva di prender freddo, quella mattina – e solo quella mattina mentre il disturbo al naso ce l’aveva da tempo –  fosse partito per il Tinto solo alle quattro.

Secondo il danneggiato, invece, chi diceva di aver visto Francesco C. a casa alle due di notte, mentiva. A tale scopo scriverà al pretore: “Metto in guardia la giustizia contro i testimoni del discarico, i quali sono capaci di mentire e per la paura che incutono loro i germani dell’imputato a nome Vito Rocco e Leonardo, d’indole cattiva essi pure, e perché tutti più o meno aderenti della famiglia C.”. Sempre a suo avviso, non era neppure vero che Francesco quel giorno avesse raggiunto gli altri in contrada Tinto. Era invece andato a prendere il caffè verso le quattro al solo scopo di darsi un alibi facendosi notare in paese. Ma c’era andato dopo aver compiuto l’impresa poichè per andare e tornare da Messerluzio al paese bastavano tre ore.

In aggiunta a queste osservazioni, Vincenzo D. riferirà di aver saputo indirettamente – secondo il meccanismo tipico dei paesi dove il segreto diventa subito di dominio pubblico – che nella notte dell’incendio, poichè l’indiziato “tardava a prendere letto, mentre avrebbe dovuto levarsi in tempo per andare a mietere, fu esortato dagli anzidetti mietitori forestieri ad andarsene a letto; al che l’imputato rispose di non potersi coricare perché quella notte doveva andare a bruciare in campagna.” Quando poi i mietitori seppero che un incendio c’era effettivamente stato, raccontarono quel particolare al loro nuovo datore di lavoro senza sapere di star parlando a un cognato del sospettato. Questi li invitò a non dire niente a nessuno, ma da parte sua ” ne fece confidenza a sua zia Antonia G.”. Ovviamente, questa, fatte a sua volta le dovute raccomandazioni di riservatezza, ne parlò a quattro sue amiche, fra cui una nipote del danneggiato la quale, a chiusura del circolo, raccontò la faccenda alla zia.

Proviamo a cogliere un’istantanea di questo scambio di notizie ascoltando Francesca P., una delle testimoni: “L’undici volgente (11 giugno 1884, ndr.) ero addolorata nella mia stalla per una vettura [un cavallo, un mulo, ndr]ammalata e mi facevo aiutare da Giulia C. e da Camilla D. . Nel frattempo si udì da fuori uno scalpore insolito e la D. domandò ad Antonia G. di che si trattasse. Questa rispose che era Francesco C. accompagnato dai carabinieri e dai curiosi dopo di essere stato interrogato sulla Pretura per l’incendio addebitatogli. Indi la G. soggiunse “Diceva buono Saverio di avergli preannunciato un mietitore forestiero che quella masseria (alludendo a quella di D.) sarebbe stata incendiata.”    


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