Solstizio d’inverno ossia La rinascita del Sole

Solstizio d’inverno

Ossia

La rinascita del Sole

Pietro Andrisani

pandrisani@libero.it

Nei rituali delle Istituzioni contemplanti un cerimoniale ricco di valori simbolici, i giorni che danno inizio alle stagioni dell’anno solare hanno sempre segnato date assai significative sotto il profilo misteriosofico e festivo. Esse venivano celebrate con drammi liturgici rievocanti il rinnovamento della energia vitale della Terra, il passaggio dalla acerba innocenza dell’inverno alla gaia pubescenza, all’aspetto magico, prodigioso e sognante della primavera che, a sua volta, preludia alla maturità fisiologica, alle considerazioni razionali e meditate che si configurano nella pienezza dell’estate.

Queste ricorrenze diedero inizio al simbolismo greco-latino degli equinozi e delle porte solstiziali dell’inverno e dell’estate rappresentate dalle due facce del dio Giano ed espletate con celebrazioni imbevute di contenuti di natura coreutica-musicale.

Il Solstizio d’inverno venne considerato come doppia festa in quanto simboleggiante anche il natale dell’anno solare. I Greci dell’età aurea lo solennizzavano con Nomoi Pitici nei quali i personaggi Apollo (la Luce) e Pitone (le Tenebre), al suono dell’aulos, al ritmo dei cimballi, digrignando i denti, mimavano azioni raffiguranti il rinnovamento della vita e delle forze del mondo creato. Il tema si riferiva all’eterna espressione della lotta tra il bene-luce (Apollo) e il male-tenebre (drago-pitone) con la ineluttabile vittoria del primo sull’altro. Il nomos pitico era così articolato: peira: Apollo esaminava il terreno per assicurarsi dell’agibilità alla lotta; katakeleûsmò: il dio provocava la sfida; jambicòs: Apollo lottava col drago; spondeiòn: Apollo solennizzava la sua vittoria; katachoreusis: si feteggiava in coro il trionfo del dio sul drago agonizzante, inneggiando un canto di ringraziamento al dio Sole.

I Romani dell’era imperiale celabravano il Solstizio d’inverno con riti infarciti di danze, canti e fuochi propiziatori, che avevano a protagonisti il dio Mithra, (un Sole bambino) in lotta con l’adulto Ariman, signore della notte, con la sicura vittoria della Luce sulle Tenebre.

All’inizio del IV secolo, dopo che Costantino il Grande accorda la libertà di culto ai cristiani molte feste pagane vengono mutate nel nome, ritoccate nel rituale ma conserveranno indelebili simbologie connesse alla vita delle parabole ascendenti e discendenti del dio Sole. Sul capo del piccolo Gesù si pone una significativa aureola del color del Sole; le due facce del dio Giano vengono convertite nei due Giovanni solstiziali: il Battista che conduce alla fase oscura (solstizio d’estate), cioè, al semestre in cui i giorni si susseguono con diminuzione progressiva della luce solare e l’Evangelista che introduce alla fase luminosa del cielo (solstizio d’inverno), al semestre in cui i giorni si susseguono con luminosità e calore crescenti.

Se in ossequio al solstizio d’estate ed al Battista, si continuano a celebrare riti paganeggianti assai concettosi, sempre ricchi di danze e di canti di grande fascino e richiamo popolare, al solstizio d’inverno si seguitò a riservare sontuosi spettacoli che culminavano con danze corali ed inni consacrati a La Rinascita del Sole.

Nel suo Dialogo della musica antica e della moderna (1581) Vincenzo Galilei riproduce un significativo inno al Sole composto verso il 130 d.C. dal cretese Mesomede di Soli ed eseguito a Roma all’epoca dell’imperatore Adriano. L’inno intona una evocazione al Padre dell’Aurora dalle ciglia di neve che con orme alate segue il giro rosato dei Poli.

Al Sole nascente l’uomo ha da sempre modulato canti che per contenuti, stili e forme vanno distinti per epoca, luogo e cultura: di tipo idilliaco come quello degli Zuñi, indigeni dell’America settentrionale (Oh, ascoltate la voce del dio Sole); filosofico come l’ode che Tommaso Campanella compose al buio della dura prigione di castel Sant’Elmo (La giusta preghiera drizzolla a te, Febo); esoterico come l’adespota Mentre Febo governa il mondo sensibile che Novello de Bonis, nel 1683, inserisce in un libro di musica speculativa di ascendenza pitagorica del Regio Abate Gregorio Strozzi di Sanseverino Lucano; trionfalisticamente radioso come quello della Iris di Luigi Illica e di Pietro Mascagni.

‘O Paese d’o Sole, patria adottiva di Ebone, quel dio dalla gioventù eterna, nume di origine egiziana (figlio di Osiride) ma di lingua greca (Ebo), se n’è fatto uno su misura: ‘O Sole mio, che resta ancora il più popolare di tutti.

Nella seconda metà del secolo XVIII e per tutti i primi sessant’anni di quello successivo le cantate a carattere encomiastico e le opere eroiche di Giacomo Tritto, Domenico Cimarosa, Gaetano Andreozzi, Giovanni Mayer, rappresentate nei grandi teatri di Napoli, l’inno al Sole è sempre presente anche se come semplice parte accessoria.

Nel 1796 però, Giuseppe Saverio Poli, futuro comandante dell’Accademia Militare della Nunziatella, ne ideò uno come opera autonoma che fece musicare dal terlizzese Giuseppe Millico. Concepito per recitarsi alla presenza delle loro Altezze Reali l’Inno al Sole di Poli e Millico risulta un suggestivo canto di ringraziamento alla Stella fonte di vita e di energia. Con la lucidità del suo pensiero, col raffinato gusto che gli erano congeniali, Giusppe Saverio Poli nell’Inno al Sole, ammiccando all’Alme Sol, curru nitido diem di Orazio, evoca e idealizza la bellezza del mondo creato fin dalla sua nascita, magnificando il miracolo dell’evoluzione della fauna e della flora.

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Di te che in carro fulgido

Superbamente assiso

Mille raggianti fiaccole

Ornan mai sempre il viso.

Federico d’Aragona volle che i grandi eventi politici e amministrativi venissero celebrati nei festeggiamenti dei solstizi. Nel 1496 egli inaugura a Napoli la moda che voleva gli Eletti del Popolo, ossia, i Sindaci, venissero insediati alternativamente il 24 di giugno, giorno di San Giovanni d’estate e il 27 dicembre, giorno di San Giovanni d’inverno; verso la fine del XVI secolo anche la cerimonia per l’investitura dei dignitari dei Sedili di Porta Capuana, di Porta Nolana, di Piazzetta Nilo avveniva nelle medesime date.

Troviamo che l’insediamento dei dignitari del Sedile di Matera a volte avveniva il 23 settembre, giorno dell’equinozio d’autunno, uno dei due momenti dell’anno caratterizzati dall’eguaglianza del giorno e della notte per ogni punto della Terra, indipendentemente dalla loro latitudine, eccetto per la linea dell’equatore che gode perennemente tale uniformità.


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