X
    Categories: Varie

Gli studi sulla “Questione brigantaggio”

Non c’è che l’imbarazzo della scelta per chi voglia studiare il brigantaggio. Ne parlano oltre duecento titoli di libri disponibili nelle principali biblioteche, un numero incalcolabile di articoli sparsi su riviste e giornali e 237.000 pagine internet.

Né poteva essere diversamente se si considera che la “questione brigantaggio”, come già avvertiva il generale Lamarmora nel corso della sua audizione davanti alla Commissione d’inchiesta parlamentare, la prima della nostra storia unitaria, istituita per studiarla si presentava «immensamente complicata»[1].

Può sembrare questa una solenne banalità, ma bisogna riconoscere al Lamarmora l’abitudine di non parlare a vanvera.

Da allora ai giorni nostri sul fenomeno è stato detto veramente di tutto. Una tale mole di studi può dispiacere a chi predilige le certezze dei giudizi definitivi, ma dà sicuramente conto della sua complessità. Una complessità che fa sì che si discuta persino sull’anno nel quale è cominciato (1860 o 1861? ) e finito (1870 per alcuni, 1874-‘75 per altri), mentre tutti concordano sul fatto che gli anni 1861-’64 debbano considerarsi quelli centrali o del “grande brigantaggio”.


L’ingresso a Napoli di Garibaldi in una stampa dell’epoca

Volendo passare velocemente in rassegna le varie interpretazioni date al problema si ha, grosso modo, il panorama che segue.
Alcune ricerche hanno enfatizzato l’aspetto rivoluzionario della resistenza delle masse contadine contro le forze (esercito, carabinieri, pubblica sicurezza) messe in campo dal nuovo stato e dalle sue amministrazioni periferiche (comuni e province) con la guardia nazionale e le colonne mobili a base territoriale. Altri studi hanno sottolineato la loro subordinazione politica alle trame della Chiesa e dei Borbone che speravano di ritornare al potere servendosi, come era già accaduto nel 1778-79 contro la Repubblica Partenopea, delle masse diseredate. Altri ancora l’hanno considerato prevalentemente un fenomeno di delinquenza comune (F. Catalano), di banditismo sociale (E. J. Hobsbawm), un fisiologico scatenarsi di violenza in presenza del vuoto di potere (B. Croce), una reazione all’egemonia piemontese nelle province meridionali (G. Volpe), l’inevitabile reazione dei contadini che dall’unificazione aspettavano terra e libertà (G. Candeloro, G. Carocci, E. Ragionieri), il braccio armato dei galantuomini spodestati dal nuovo governo (A.Lucarelli).[2]


Il matrimonio del galantuomo nella Basilicata ottocentesca

Un riequilibrio nel valutare il peso delle diverse cause che lo originarono si è avuto con la “Storia del brigantaggio dopo l’Unità” (Feltrinelli, 1964) di Franco Molfese. Lo stesso autore spiega che quasi ogni regione ebbe proprie forme di brigantaggio e conferma che la Basilicata, per motivi geografici e d’ambiente fisico (territori ricchi di boschi e di montagne) e sociale (contadini senza terra), fu l’epicentro del fenomeno. Richiamandosi ad Antonio Gramsci che aveva giudicato l’unificazione una conquista regia, Molfese mette in luce la continuità fra il prima e il dopo Unità voluta da una dirigenza nazionale che temendo, più che il ritorno dei Borbone, l’azione dei gruppi liberali riformisti che minacciavano di dar fuoco alle rivolte contadine, preferì mantenere al potere gli uomini dell’apparato borbonico. Come, d’altronde, predetto da Tancredi al principe di Salina ne “Il gattopardo” di G. Tomasi di Lampedusa : « Occorre che cambi tutto, perché non cambi niente ».

Sulla linea Gramsci-Molfese si attesta in parte uno dei più significativi fra gli ultimi studi sul tema, quello di John Dickie, che, nel saggio “Una parola in guerra: l’esercito italiano e il brigantaggio, 1860-1870”, insiste soprattutto sulla natura coloniale del rapporto imposto dal governo unitario alle province appena annesse.

Alcuni giudizi dei contemporanei

Questo atteggiamento, in verità, era stato denunziato in parlamento dal duca di Maddaloni già nel novembre del 1861, vale a dire a pochi mesi dal primo manifestarsi del brigantaggio:

«… tutto si fa venir dal Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per i dicasteri e per le pubbliche amministrazioni. Non v’é faccenda nella quale un onest’uomo possa buscarsi alcun ducato che non si chiami un piemontese a disbrigarla. A’ mercanti di Piemonte dannosi le forniture piu’ lucrose: burocratici di Piemonte occupano quasi tutti i pubblici uffizi, gente spesso piu’ corrotta degli antichi burocratici napoletani. Anche a fabbricare le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali oltraggiosamente pagansi il doppio che i napolitani. A facchini della dogana , a carcerieri, a birri vengono uomini dal Piemonte e donne piemontesi si prendono a nutrici dello spizio de’ trovatelli, quasi neppure il sangue di questo popolo piu’ fosse bello e salutevole.

Questa é invasione non unione, non annessione!

Questo é voler sfruttare la nostra terra siccome terra di conquista.

Il governo del Piemonte vuole trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Peru’ e nel Messico, come gli Inglesi nel Bengala. Bella unificazione é quella di una contrada cui si affoga in un mare di sangue, cui si crocifigge in un letto di miserie! E pure questi misfatti perpetrano gli uomini preposti oggi alla cosa pubblica: essi che spengono nei nostri popoli anche le dolci illusioni di libertà, che gli fan vedere come un reggimento costituzionale potesse divenire sinonimo di dispotismo; come all’ombra di un vessillo tricolore facilmente si violasse il domicilio, il segreto delle lettere e la libertà personale si potesse manomettere e sin le forme stesse della giustizia; e gli accusati tener prigionieri ed ingiudicati lunga pezza e mandare a morte senza neppur procedura di giudizio, per solo capriccio di un caporale o per sospetto e delazione di qualche scellerato ».[3]

Per questi motivi., concludeva il deputato campano, tanti meridionali, dopo aver viste le proprie speranze così atrocemente deluse, erano pronti a darsi a chiunque, “uomo o demonio”, promettesse non il bene, ma un male minore di quello che stavano vivendo.

Sviluppando la tesi del rapporto coloniale imposto al sud, lo studioso inglese si sofferma sull’immagine dei briganti diffusa nel paese dall’esercito, un esercito di settentrionali: «Contro il brigantaggio si dispiega da parte degli ufficiali dell’esercito italiano l’intero repertorio del razzismo: i banditi sono neri, bestiali, femminei, falsi, diabolici, perversi, irrazionali».[iv]


Un sequestro di persona nell’illustrazione a un articolo sul brigantaggio di una rivista americana

La stessa immagine è riflessa, più o meno fedelmente, dalla stampa dell’epoca. A leggere con attenzione le deposizioni dei generali davanti alla commissione d’inchiesta, si scopre infatti che il giornalismo intruppato (embedded) che di quanto avviene in guerra fa sapere solo ciò che vogliono i comandi, non è nato oggi e che la stampa dell’epoca ebbe il suo da fare nell’amplificare alcuni fatti e nell’attenuarne altri e i suoi profitti nello sbattere in prima pagina i briganti-mostri.


L’accampamento dei briganti

Ma evidentemente non era possibile aspettarsi una valutazione serena dalla stampa su un fenomeno che la commissione d’inchiesta parlamentare, nel comitato segreto del 3 e 4 maggio 1863, presenterà alla Camera in questo modo:

« Noi non vogliamo funestarvi, o signori, con la narrazione delle atrocità che i briganti commettono sugli infelici che cadono nelle loro mani. Più che opera di creature umane sembrano essere quelle di cannibali o di belve selvagge. Talvolta l’inumanità di taluni di essi è giunta al segno da fare inorridire gli stessi compagni, e ci è narrato il caso di un Cerritacchio che lo stesso Caruso fece ammazzare perché aveva torturato con ogni maniera di strazio un misero fanciullo. Né la stessa morte della vittima appaga e stanca la ferocia dei masnadieri, i quali sfogano la libidine di sangue da cui sono invasati anche contro i cadaveri. I vilissimi fra loro sono i ferocissimi: tali sono un Coppa che è con Crocco, un Varanelli che è con Caruso. Fra i meno sitibondi di sangue sono Schiavone e Coppolone. Sono rotti ad ogni lascivia e turpitudine, pronti ad ogni delitto: bevono il sangue, mangiano le carni umane. Sono rozzi, superstiziosi, ignorantissimi ».[v]

Qui e nelle immagini seguenti le gesta di Carmine Crocco nei pannelli usati dai cantastorie negli spettacoli che esaltavano le imprese dei grandi banditi

Eppure erano in tanti a indicare in modo chiarissimo cosa c’era dietro il brigantaggio e come se ne poteva venire a capo. In questo intervento di F. S. Sipari, ad esempio, i termini brigante, contadino e proletario sono usati come sinonimi e darsi al brigantaggio è considerato uno sbocco quasi inevitabile per il proletario-contadino a causa della miseria e delle ingiustizie di cui è fatta la sua vita:

«Il proletario vuol migliorare le sue condizioni nè più nè meno che noi. Questo ha atteso invano dalla stupida pretesa rivoluzione; questo attende la monarchia. In fondo nella sua idea bruta, il brigantaggio non è che il progresso, o, temperando la crudezza della parola, il desiderio del meglio. Certo, la vita è scellerata, il modo è iniquo e infame…Ma il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata: le avversioni del clero, e dei caldeggiatori il caduto dominio, e tutto il numeroso elenco delle volute cause originarie di questa piaga sociale sono scuse secondarie e occasionali, che ne abusano e la fanno perdurare. Si facciano i contadini proprietari. Non è cosa così difficile, ruinosa, anarchica e socialista come ne ha la parvenza. Una buona legge sul censimento, a piccoli lotti dei beni della Cassa ecclesiastica e demanio pubblico ad esclusivo vantaggio dei contadini nullatenenti, e il fucile scappa di mano al brigante…
Date una moggiata al contadino e si farà scannare per voi…»[vi]

E’, quindi, non senza ragione, dopo che la condanna a morte gli era stata tramutata in carcere a vita, che Carmine Crocco, dal bagno penale di Santo Stefano, nei suoi ultimi anni di vita scriverà:

« Sappiate che per noi nessuno scrittore sprega inchiostro e carta, i nostri malanni, la nostra miseria, gli abusi, l’ingiustizia, che ci fanno, nessuno la scrive, mentre poi sono chiamati sommo scrittori, quelli che ci dispreggiano chiamandoci plebaglia, Miserabile, vermi, ed altri dispreggi che ci fanni comparire tanti schifosi animale…»

Il pubblico cui idealmente si rivolge è fatto dai “misiri figli della miseria” che invita a essere cauti, a non cercare di cambiare condizione, a lasciare che i governi facciano quel che vogliono, a non mischiarsi con i signori se non vogliono andare incontro alla rovina.

All’interno di un modo di vedere che confina il fenomeno nel mondo dell’orrore e dell’inumano, è inevitabile sorprendersi nel leggere proprio ne “L’uomo delinquente” di Cesare Lombroso, il fondatore di una disciplina –l’antropologia criminale – che ha la pretesa di svelare il mistero dell’origine della criminalità con dati biologici, ereditari e climatici che farebbero sì che intere razze siano dedite al delitto, annotazioni come questa:

« Le questioni che nascevano fra i ricchi e i poveri, per la divisione di alcune terre appartenenti ad antichi baroni, il cui possesso era dubbio ed era stato promesso a tutti, ed in ispecie ai poveri coloni, gli odi che dividevano i pochi signorotti dei comuni dell’Italia meridionale, e le vendette esercitate contro i clienti degli uni e degli altri, furono cause precipue del brigantaggio. Sopra 124 comuni della Basilicata, 44 soli non diedero alcun brigante; erano i soli comuni, dove l’amministrazione era ben diretta da sindaci onesti ».[vii]

Davanti a un enunciato che, contraddicendo l’impianto generale della propria opera, evidenzia il peso dei motivi economici e sociali nella nascita del fenomeno, una sorpresa ancora maggiore dovrebbe provocare il credito che si dava alle teorie lombrosiane un secolo dopo la loro formulazione. Mi riferisco, ad esempio, a opere come la “Indagine antropologica sulla personalità del brigante Giuseppe Summa detto Ninco-Nanco” di N. De Ruggieri pubblicata nel 1975 dall’Archivio storico per la Calabria e la Lucania.[viii]

Chi scrive non ama il vittimismo che ha caratterizzato per un certo tempo l’impegno meridionalista, ma c’è davvero motivo di sorprendersi di fronte a posizioni come quelle espresse dal brillante avvocato materano, oppure possono considerarsi tardive espressioni di un malcelato razzismo di Stato cui le istituzioni si sono ispirate per oltre un secolo nell’affrontare i problemi del sud? [ix]

Chi volesse, infine, esplorare gli sterminati territori del revanscismo neo-borbonico e di alcuni gruppi cattolici integralisti non ha che da consultare i tanti siti dedicati a quella che, malgrado l’abbondanza di studi da loro stessi proposti, continua ad essere chiamata “Storia dimenticata”. Uno di questi è all’indirizzo http://www.eleaml.altervista.org/sud/ che, a onor del vero, ospita anche interventi critici verso le posizioni cui si ispira. Fra questi si segnala una nota del presidente della Deputazione di Storia Patria per la Lucania, Raffaele Giura Longo, resasi necessario per motivare il divieto fatto dal prefetto di Potenza al sindaco di Latronico che avrebbe voluto intitolare ai briganti una via cittadina.

Ma l’elenco di coloro che, senza portare elementi nuovi alla conoscenza della questione, per ignoranza, o, ancora più spesso, in nome di un revisionismo che punta a trasformare il dibattito sul passato in una discussione fra tifosi di calcio, civettano con quello che fu il primo, terribile dramma della nostra storia unitaria, sarebbe piuttosto lungo. Piuttosto ambigua, ad esempio, era l’interpretazione che se ne dava nello spettacolo “Calpestati ci vendicammo” della Grancia di Brindisi di Montagna. Tanto che questa estate gli organizzatori ne hanno annunziato una nuova versione.


Una scena dello spettacolo sul brigantaggio alla Grancia di Brindisi di Montagna

E pensare che quando il ricordo del brigantaggio bruciava ancora nei figli e nei nipoti di chi lo aveva vissuto e la miseria e le ingiustizie che lo avevano prodotto erano ancora presenti, solo qualche cattivo letterato o politico in mala fede, annoterà Carlo Levi nell’opera che ha fatto conoscere la Lucania al mondo e agli stessi lucani, se ne compiaceva:

« Giudicato da un punto di vista storico, nel complesso del Risorgimento italiano, il brigantaggio non può essere difeso. […]

Del resto, neanche i contadini lo giudicano e lo difendono, e quando ne parlano con tanta passione, non se ne gloriano […]

Soltanto, sta ad essi nel cuore: fa parte della loro vita, è il fondo poetico della loro fantasia, é la loro cupa, disperata, nera epopea »[x].

 
 


[1] L’audizione del Generale Lamarmora è in Archivio della Camera dei Deputati, Archivio del Regno, Commissioni d’inchiesta 1862 – 1923, Commissione d’inchiesta sul brigantaggio 29.11.1862 – 23.07.1863, busta 1.

[2] B. Mantelli, “Il brigantaggio meridionale”, in “Il mondo contemporaneo. Storia d’Italia”, vol. I, La Nuova Italia, 1978, pp. 70-72.

[3] http://www.lucanianet.it/modules/news/article.php?storyid=2194.

[iv] In “Passato e presente” n. 26, maggio-agosto 1991, p. 59.

[v] A. De Jaco ( a cura di), “Il brigantaggio meridionale”, Roma, 1969, p. 46.

[vi] B. Croce, “Storia del Regno di Napoli, Bari, 1966, pp. 337-339.

[vii] C. Lombroso, “L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza ed alla psichiatria. Cause e rimedi”, III edizione, Torino, 1896, p. 31.

[viii] L’intervento di R. Giura Longo è reperibile anche su http://www.basilicatanet.it/sito_deputazione.

[ix] All’interno di una riflessione complessiva sui rapporti fra individuo e Stato, Michel Foucault, in “Antologia. L’impazienza della libertà”, (Feltrinelli, Milano, 2005) parla del “razzismo di stato: di un razzismo che una società eserciterà contro se stessa, contro i suoi propri elementi, contro i suoi propri prodotti; di un razzismo interno, quello della purificazione permanente, che sarà una delle dimensioni fondamentali della normalizzazione sociale”.

[x] C. Levi, “Cristo si è fermato a Eboli”, Einaudi, Torino, 1945, pp. 135-136.

Cristoforo Magistro:

View Comments (4)

  • Caro Magistro, dal tuo articolo sul Brigantaggio.
    Mi sono affiorati alla mente, quando mi sono state raccontate le storie dei Briganti.
    Ed in Particolar modo Di Rocco Cirichigno detto Coppolone (per il grande cappello a falde larghe che portava) ed sua Donna Angiolina Cotugno.
    La storia narra che in località Valle Cupa (Contrada montese che si trova sulla Carrera, per intenderci e per essere ancora più precisi il lato che da sulla valle del Bradano, difronte a San Vito la strada che va verso Bernalda).
    Risiedeva un proprietario terriero il quale aveva avuto rapporti di confidenziali e quant'altro la milizia comunale (Guardia Civica).
    Rilevando sotto interrogatorio il passaggio della Banda Coppolone...
    Il capo banda a sua volta avendo scoperto ciò, con la sua gente iniziò dei turni di osservazione per cogliere di sorpresa la persona che si era macchiata di questo crimine, a detta sua...
    La Banda si nascodeva all'interno del Demanio Campaguolo Tra monte e bernalda (non pensate che la flora e la fauna siano le stesse)nell'800 c'era un bel bosco, di raverelle, querce e carrubi, che copriva la maggior parte di quelle terre.
    Il mal capitato oramai viveva nel terrore, e si trovandosi tra l'incudine della legge e la vendetta dei briganti, infatti era costretto a muoversi di nascosto.
    Tenete presente che le leggi speciali che vennero promulgate per il brigantaggio, per i coplici dei briganti presunti o tali prevedevano finanche la pena capitale (fucilazione o impiccaggione)...
    Quindi sentendosi braccato, e prendendo gli accorgimenti del caso, cercava di non essere metodico negli spostamenti, poi doveva anche governare il bestiame nella sua azienda...
    quindi una serie di fattori, che imponevano di muoversi dal paese.
    I briganti potevano usufruire di un ottimo posto di osservazione, per scoprire quando si fosse recato in azienda, da cui vedevano senza essere visti.
    Posizionatisi sul crinale della contrada San Vito quella che è difronte a Valle cupa con un cannocchiale videro, che il mal capitatorestava in campagna senza tornare a casa.
    Lo trovarono nascosto, dentro al forno per fare il pane.
    Venne ucciso e una parte del suo copro, fu posta in una cesta di vimini e mandata a casa dai suoi famigliari.
    In questi casi e facile enfatizzare un racconto.
    ma tra storia e leggenda avvolte il passo è breve.
    Ho omesso appositamente di fare il nome del mal capitato, per ovvie ragioni.
    Comunque detto ciò credo che bisogna per forza di cose compiere un distinguo tra briganti e Patrioti fedeli al re borbone.
    Parafrasando il cine spettacolo la Storia Bandita...
    avremmo degli spunti di riflessione.
    almeno spero....

  • Ringrazio Titus e Franco Lomonaco per l’interesse.
    A Titus: sì, il brigantaggio ebbe diverse fasi fra cui una, più o meno politicizzata, di segno borbonico. A offrire copertura politica erano più che altro i comitati borbonici spontanei locali.
    Ve ne era uno anche a Monte.
    Ne parlerò nella seconda parte della ricerca.
    Credo che dopo circa un secolo e mezzo dai fatti la questione privacy sia superata. Del resto la materia è regolata da una normativa cui è dovere elementare attenersi. Fare i nomi dei briganti, dei loro complici e delle loro vittime – oltrettutto quasi tutti già elencati in varie pubblicazioni - a mio avviso significa semplicemente aiutare a capire che poteva capitare a chiunque di trovarsi da una parte o dall’altra.

    A Franco Lomonaco: possiamo parlarne naturalmente, ma non ho capito cosa c’entrerebbe con le nostre “cosarelle” Mel Gibson.
    Certo l’interesse di personaggi come lui per la nostra terra può avere delle buone ricadute nel rilanciare l’immagine del territorio.
    Ancora di più quello di un Francis Ford Coppola che ha intitolato “Buttati Bernardo” (1966) uno dei suoi primi film e sa dalla sua storia famigliare e, per così dire, dai suoi geni, chi siamo.
    La Lucania-Basilicata dei giorni nostri non ha ancora voluto prendere coscienza collettiva dell’unico evento che abbia coinvolto e interessato veramente tutti per circa un secolo: l’emigrazione.
    Questa sterminata pagina della nostra storia può essere fatta conoscere a tutti solo con gli strumenti di comunicazione attuali, vale a dire con la multimedialità. Gli studi dei ricercatori, per quanto possano essere fatti bene, non hanno pubblico.
    E chi meglio di un Coppola potrebbe coordinare-progettare un Museo dell’Emigrazione Lucana?
    Credo che se si riuscisse a interessare all’idea gente come lui, ciò che ho provato a proporre da sei-sette anni senza aver avuto nessun riscontro, potrebbe avere un futuro.
    Personalmente continuo a credere che sia una cosa da farsi.

    Più in generale: mi pare che dall’attribuzione ai Sassi di Matera della qualifica di patrimonio Unesco, si stiano muovendo un po’ di cose.
    Naturalmente la forza attrattiva della stessa Matera sarà molto più forte se anche i paesi intorno avranno delle cose da offrire. E di cose ce ne sono tante, ma hanno poco valore se non sono presentate nel modo dovuto. Inoltre le “cose”, gli eventi, le tradizioni, non sono come le patate che si comprano dal fruttivendolo, ma come quelle che si “inventano”, cioè ritrovano, dando un colpo di zappa.
    Ce ne sono tantissime, poi uno decide quali valorizzare.

    Giusto per capirsi: un ottimo esempio di invenzione-ritrovamento è stato, a Monte, “La cavalcata del Borbone” ideata da Franco Caputo.

    • Caro Magistro...
      Non è una questione di privacy, ma semplicemente è un omissis voluto, dato il modo cruente in cui venne ucciso.
      Poi sul Brigantaggio ne possiamo parlare, molti li consideravano dei taglia gole, altri dei patrioti "Fedeli al re Borbone".
      Credo che l'argomento debba essere affrontato con distiguo, asseconda delle zone d'influenza delle bande e dei legami che avevano tra loro i vari capi Banda.
      Comunque a mio modesto parere, nella concezione comune del termine, si sono fatti passare tutti per malfattori.
      E' credo profondamente che la storia di quello che è stato il brigantaggio debba riabilitare alcune figure...
      Fore la prima e la più emblematica è Fra Diavolo al secolo Michele Pezza che da umile apprendista artigiano divenne Duca di Cassano, Nominato da re Ferdinando di Borbone
      (Malgradouna pesante condanna per duplice omicidio che pendeva sul Pezza, nomina dovuta al suo impegno nella ricomquista di napoli e del Regno delle due sicilie a seguito dell'invasione Francese).
      Ma di questi esempi ve ne sono Tanti...
      Come nel Caso di Fra Diavolo Il Re ha fatto di necessità Virtù...
      ciaop a presto

  • Una ricerca davvero interessante la sua, di notevole impegno!

    Credo che possa essere un punto di partenza per darci un identità storica, riconosciuta tale da tutti...

    Aspettiamo la seconda parte con trepidazione!!!

     

Related Post