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La Monte del riscatto

La pubblicazione dello “Spicilegio” di Don Michele Nobile è da considerarsi un atto di amore per il paese da parte di chi l’ha voluta. Privati cittadini naturalmente. Le amministrazioni, quelle buone, non arrivano a tanto.  A questi cittadini vada quindi il ringraziamento di chi non considera la cultura un affare da noiosi perditempo. Una comunità che cura le proprie memorie, è una comunità che, per mezzo della sua parte attiva, si accudisce, si ama e vuole conoscere il passato perchè progetta il futuro

Non ho ancora letto il libro in questione, ma un amico mi ha inviato il capitoletto dedicato al brigantaggio. L’ho trovato veramente piacevole e interessante per cui mi sento di dire che, se anche la restante parte è così ,l’opera merita di essere acquistata.

Piacevole e – data l’alluvione di testi ciarlataneschi che attribuiscono ai piemontesi tutti i mali del Sud – gratificante. Condivido infatti a pieno l’impostazione che l’autore dà alla questione brigantaggio: quel dramma fu generato in primis dai nostri “galantuomini” che usarono il potere per dare sfogo a vendette e ad odi personali costringendo i perseguitati a darsi alla campagna. Parlo di quelli che ebbero l’accortezza di fiutare da che parte tirava il vento e si diedero alla causa unitaria facendo i liberali con lo stesso fanatismo con cui in passato erano stati borbonici. Un’eterna storia di opportunismo con le dovute, nobili e minoritarie, eccezioni.

Il Nobile usa il termine versipelle -letteralmente, chi cambia pelle- riferendolo al medico Tommaso Memmoli, ma la stessa qualifica si potrebbe applicare a vari altri.

Dicevo di averlo letto anche con interesse perché, ad esempio, non sapevo che Coppolone e compagni rifiutassero la qualifica di briganti e si facessero chiamare guaglioni. Come sappiamo dalle cronache sui veri criminali, l’autodefinizione usata è importante.

Così come non sapevo che il più giovane dei fratelli Scocuzza sarebbe stato ucciso a freddo e a tradimento mentre, secondo le carte, era morto in uno scontro con la guardia nazionale guidata dal  citato Memmoli. Quel Memmoli che, accusato giustamente di aver commissionato ai briganti il sequestro e l’uccisione del notaio Contangelo, si scagionerà dicendo che la cosa non era possibile in quanto a lui si doveva l’uccisione del giovane Scocuzza. Purtroppo, violentando ogni senso di giustizia, fu creduto, assolto e premiato prendendo il posto dell’ucciso. Fu questa un’amarissima lezione per la comunità.

Ciò detto, mi pare che la ricostruzione del Nobile contenga anche qualche imprecisione riguardo al sequestro e all’uccisione di Contangelo per il quale mi permetto di rimandare a “Il delitto del porco grasso” da me presentato su questo sito tempo fa. Si tenga presente che l’espressione “porco grasso” fu quella usata da Memmoli nell’annunziare ai briganti che Contangelo sarebbe andato a Potenza. Si tenga ancora presente che Contangelo sapeva che la sua uccisione era stata chiesta più volte ai guaglioni montesi che, malgrado tutto, non avevano accettato -anche se poi a sequestro avvenuto parteciparono alla sua gestione- perché molti stavano pensando di costituirsi e volevano quindi tenersi buone le autorità locali.

Contangelo doveva andare a Potenza poiché era stato convocato dal comando regionale della guardia nazionale. Sapendo cosa si tramava contro di lui, chiese una scorta ma gli fu rifiutata. Per sventare il pericolo rimandò più volte il viaggio e all’andata andò bene, ma al ritorno fu catturato presso Tricarico. Per il suo rilascio fu chiesto un riscatto di oltre centomilalire dell’epoca da raccogliere in pochi giorni. Uno sproposito poiché in realtà era già stato deciso di ucciderlo come poi accadde.

Un’altra uccisione a freddo fu quella di Gasparino Motta il diciannovenne che, catturato e dichiaratosi, diremmo oggi, pentito, fu impiegato come guida per catturare Coppolone. Senonchè, giunto dove erano nascosti vari suoi ex compagni –  Coppolone era già morto in seguito a ferite ma ancora non si sapeva- riuscì a menare per il naso gli ussari portandoli da tutt’altra parte. Quando ci si rese conto dell’inganno si decise che il ragazzo doveva morire. A volerlo fu il generalissimo Pallavicini che ordinò di trasferirlo da Monte con pochi uomini di scorta in modo che fosse tentato di scappare. Come poi, fosse vero o meno, si disse che era accaduto.

Chi voglia saperne di più può leggere il penultimo numero della rivista Mathera che riporta una mia ricostruzione dell’episodio.

Cristoforo Magistro:
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