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A 150 anni dall’Unità d’Italia

Devo confessare che la storia della nostra unificazione nazionale non mi aveva particolarmente esaltato da ragazzo a causa dell’impostazione catechistica e retorica con cui ne sentii parlare le prime volte – catechistica perché tutto era dato per scontato e retorica per lo spreco di paroloni che ne accompagnavano la narrazione – e avevo rifiutato di approfondire in seguito considerandola sostanzialmente un’operazione dinastica d’espansione territoriale dei Savoia fatta fra l’indifferenza e in parte contro il “vero” popolo italiano.
Più tardi ho capito che era stata questo, ma anche tante altre cose.
Fu parte di un movimento europeo e mondiale che mirava a dare una casa propria, un territorio, ad ogni nazionalità e fu una proiezione nel futuro, l’espressione delle capacità delle élites che l’Unità avevano voluto di guardare lontano.
Se, insieme alla “libertà”, l’unificazione avesse portato anche un minimo di giustizia sociale (con l’assegnazione dei demani civili ed ecclesiastici ai contadini, ad esempio), si sarebbe fatto presto a “fare gli italiani”, cioè a far sentire tutti parte del nuovo Stato. Così non fu e il brigantaggio nel Mezzogiorno, alimentato dai conservatori e dai clericali, ne fu la conseguenza: una terribile guerra civile a favore della reazione.
Da questa derivò il centralismo della nostra organizzazione statuale, la piemontesizzazione d’ogni servizio e funzione statali, l’imposizione ad un paese molto diverso da regione a regione di un unico “vestito” di leggi; un vestito stretto per alcune parti, largo per altre.
Richiamandosi a un Risorgimento da operetta il fascismo se ne proclamò, fra le altre cose, erede e continuatore. Il risultato fu un nuovo smembramento e l’Italia poté riunificarsi solo nell’aprile del 1945.
Oggi, alla vigilia dei 150 anni dall’unificazione, una forza politica al governo del paese, la Lega Nord, dichiara apertamente di non considerare cosa che la riguardi né l’evento della prima, né quello della seconda riunificazione e in occasione della Festa della Repubblica ostenta l’assenza dei suoi rappresentanti dalle celebrazioni. Eppure si tratta di tizi che nell’assumere le cariche che ricoprono hanno giurato fedeltà a questa Repubblica.

Per ricordare i fatti che hanno dato origine alla nostra storia unitaria, propongo di pubblicare una serie di immagini che si riferiscono ai personaggi che la vollero e agli episodi che contribuirono a realizzarla. Le immagini saranno presentate alla rinfusa: chi indicherà il luogo, l’anno o il nome del personaggio cui si riferisce riceverà, se l’amministratore del sito è d’accordo, un piccolo premio.
Naturalmente alla gara possono partecipare solo i ragazzi fino ai 13-14 anni.









Cristoforo Magistro:

View Comments (3)

  • Mi concedo un commento sul tema che hai proposto.

    Concordo sulla necessità di richiamare all'attenzione il tema. Proprio perchè siamo ancora un paese "giovane" dal punto di vista dell'unificazione.
    Credo che la Lega non rappresenta seriamente un rischio per l'identità nazionale solo se riesce a concordare valorizzazione del territorio e apparteneza alla nazione.
    Al momento la contraddizione è evidente: si giura fedeltà alla Repubblica mentre nello statuto è richiamata esplicitamente l'indipendenza della Padania come obiettivo ultimo!

    Sul processo di unificazione "degli italiani" consentimi una digressione sul ruolo che ha avuto il Fascismo.
    Probabilmente, pur nel male dell'aspetto totalitario e imperialista, il Fascismo aveva tentato di unificare "dal basso" gli italiani. Nel tentativo di "totalizzare" lo stato forse paradossalmente è servito alla causa.
    Gran parte della propaganda era fondata sul concetto di patria. Concetto che forse per la prima volta arrivo' in casa dell'italiano medio; favorito anche dai primi mass media.
    Certo con tutti i limiti del caso e senza nulla togliere al vero patriottismo "dal basso" che ha animato poi la Resistenza.

  • Fra fine Ottocento e primo Novecento due non lieti fenomeni concorsero a creare o ad accrescere il senso di appartenenza degli italiani alla nazione: la grande emigrazione e la prima guerra mondiale. In tutti e due i casi si trattò di un’italianità imposta.

    Prima dell’emigrazione ci si identificava con il campanile e, al massimo, ci si sentiva siciliani, lucani, toscani, veneti quando ci si allontanava dalla propria regione. Si diventò italiani quando si fu fuori d’Italia e spesso i nostri emigrati più evoluti – vale a dire quelli che cercarono d’integrarsi - fecero propria l’accezione negativa che si dava al termine nel paese d’accoglienza al punto da vergognarsene.

    Per i loro figli le cose si fecero ancora più complicate. Ecco ad esempio come lo scrittore italo-americano John Fante, di madre lucana e padre abruzzese, da ragazzo cercava di nascondere le sue origini wop (acronimo per “senza passaporto” e, per assonanza, uap, guappo, italiano):

    Fin dal primo giorno, alla scuola parrocchiale, ho il timore di essere chiamato wop. […] Quando mi domandano di che nazionalità sono, gli dico che sono francese. Qualche ragazzo comincia a chiamarmi Frenchy. Mi piace. E’ bello. Insomma prendo a detestare le mie origini. Evito i ragazzi e le ragazze italiane dai modi amichevoli. Ringrazio Dio per la mia pelle chiara e i capelli, e i miei compagni li scelgo in base al suono anglosassone dei loro nomi. Se un ragazzo si chiama Whitney, Brown, oppure Smithe, allora è amico mio; però sto sempre un poco in apprensione quando sono con loro; potrebbero scoprirmi. […] Oh wop, oh dago! Mi date fastidio pure quando dormo. […] Poi penso che mia nonna è una wop senza speranza. E’ una piccola contadina tracagnotta che va in giro con le braccia incrociate sulla pancia, una vecchia sempliciotta appassionata di bambini. Entra in camera mia e cerca di parlare coi miei amici.parla inglese con un pessimo accento, con questo incessante rotolio di vocali. Quando con quel suo fare semplice, con quei suoi vecchi occhi sorridenti, si mette davanti a uno dei miei amici e dice: «Ti piace a te di andare alla scola delle moniche? », il cuore mi si ribella. Mannaggia. Che disgrazia: ormai lo sanno tutti che sono italiano.

    Il fascismo agitò e fece strumentalmente proprio il sentimento di patria che, bene o male, si era creato negli anni della Grande Guerra e lo ripropose in modo ossessivo, ma le parole non corrisposero ai fatti poichè l’Italia fascista fu ancora più matrigna di quella liberale con i poveracci.

    Pensavo anch’io, come Raf, che, sia pure coattivamente, il fascismo avesse portato a un maggior senso di appartenenza, ma ho poi avuto modo di verificare che così non fu in gran parte delle campagne italiane. Non fu così dalle nostre parti e, a tale proposito, mi permetto di consigliare la lettura di un mio studio, “Il Materano fra totalitarismo e liberazione alleata” (in Bollettino Storico della Basilicata, n. 21, a. XX, 2005, pag. 83 e segg.), in cui si documenta la refrattarietà al fascismo dei ceti agricoli.

    La partecipazione alla seconda guerra esasperò ulteriormente il contrasto fra realtà e propaganda e portò molti al rigetto della “patria fascista” e, qualche volta, al rifiuto della patria tout court. Nei fatti, il fascismo provocò la disfatta militare e la rottura dell’unità territoriale del paese. La ripresa del sentimento nazionale fu poi favorito dall’odio verso i tedeschi durante la Resistenza, ma la delusione per i risultati ottenuti tornò ad escluderlo dal patrimonio identitario. Se ne riappropriò la cerimonialità del neofascismo che, fra vittimismo e rimozione dei disastri cui aveva portato la trasformazione del sentimento nazionale in nazionalismo, tornò a proporlo con la solita e tronfia retorica.

    Le celebrazioni per i 150 anni dall’unificazione possono essere una buona occasione per maturare criticamente e in positivo il senso del nostro essere italiani.

    Non è detto che non accada.

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