Il delitto dello zolfanello, ultima parte

Decisamente più illuminante è la testimonianza della madre di Nunzia, malgrado al momento del fatto fosse assente.

Costei si chiama Anna Nicola D. ed è una contadina di 48 anni, vedova e nullatenente. Dopo aver riferito quanto le ha detto la madre riguardo all’atteggiamento del G. che, vistosi rifiutare i fiammiferi “si diede a bestemmiare dicendo altresì che egli aveva diritto sulle cose e sulle persone della nostra casa, specie su mia figlia la quale si apparteneva a lui, onde presto l’avrebbe tolta di là per collocarla in casa di sua disposizione”, la sua deposizione entra soffertamente nel merito dei  rapporti fra la figlia e il suo uccisore.

Sì, è vero, dice, che la figlia era entrata in confidenza con questi andando a fare la servetta dalla zia Caterina la quale spesso la adibiva “per i suoi servizi di dentro e fuori casa”. Da un paio di mesi il rapporto era però cessato poichè la figlia se ne era allontanata “d’ordine del suo confessore , sacerdote Sig. Gregorio Casella, a cui rivelò d’aver dato ascolto alle parole seduttrici del G. e per tale motivo il confessore le aveva financo interdetta l’esecuzione del santo Precetto; anzi, giorni dietro appunto, mia figlia dicevami ancora di voler tornare a confessarsi per chi sa avesse potuto essere abilitata alla comunione”.  

Emerge anche da questi particolari un aspetto del candore della ragazza; particolari che forse avrebbero potuto placare la febbre investigativa del brigadiere Losa che non riusciva a spiegarsi come mai quella volta non avesse ceduto alle richieste del G.. Nello stesso tempo questi dettagli ci informano sulle pratiche che  regolavano il rapporto fra credenti e ministri del culto. Dal momento che confessando un peccato si rischiava la sospensione dalla comunione, non si esponeva il penitente ai commenti della “pubblica voce”? Veniva pubblicizzato attraverso interdizioni anche il peccato – e, inevitabilmente, il peccatore –  maschile? E, soprattutto, le stesse si applicavano anche agli appartenenti ai ceti agiati oppure  la buona usanza medioevale di scomunicare, se del caso, persino re ed imperatori era andata perduta? Domande a cui non si può dare una risposta, ma riesce difficile pensare che Don Gregorio potesse negasse l’ostia consacrata al sindaco, al notaio, al farmacista della cui cerchia sociale, se non famigliare, anch’egli faceva parte. Cosa se ne sarebbe detto in piazza? E soprattutto la si poteva rifiutare alla moglie o a una figlia caduta in peccato di costoro? Non c’era il rischio facendolo di svegliare in mariti o padri il tarlo del sospetto inducendoli a qualche atroce misfatto?

Troppe complicazioni e pericolose incognite consigliavano di lasciar perdere in certi casi. D’altra parte, non solo dai gesuiti  era praticata la doppia morale dell’ortodossia in pubblico e della tolleranza in privato.

In certi casi la tolleranza era d’obbligo, ma non per Nunzia, servetta dall’età mentale inferiore a quella anagrafica, analfabeta e senza padre, né protettori. Per lei mostreranno, si è già detto, più umana pietà – sia pure postuma, i vicini. 

Da questa creatura, psicologicamente e fisicamente inerme, il suo uccisore dirà in un primo momento di essere stato costretto a difendersi  strappandole il  coltello con il quale lei avrebbe cercato di colpirlo ed esibendo a prova di ciò, qualche giorno dopo il fatto, una perforazione nel suo mantello. Il perito Mauro Dimichino, anche lui sarto, accerterà invece che a farla era stata la stessa arma con la quale secondo la perizia medica era stata uccisa la ragazza. Al riguardo è di un certo interesse ricostruire anche cosa ne era stato del coltello dopo il fatto. Al momento dell’arresto il G. ce l’aveva ancora addosso, ma, strada facendo, mentre veniva portato in caserma dalla guardia campestre che l’aveva arrestato, se ne era liberato facendolo cadere per strada. Sarà raccolto da un passante che il giorno dopo lo cederà a un amico, ma sparsasi la voce che chi se ne era impossessato poteva avere problemi con la giustizia, questi lo consegnerà agli inquirenti.

Qualcuno aveva provato ad aiutare il G. facendo scomparire l’arma del delitto? Lo si può solo sospettare.

Ad ogni modo, quando gli sarà presentato il G. sarà costretto ad ammettere che quel ferro affilato a mo’ di spadino era suo pur continuando a sostenere che Nunzia lo aveva aggredito con un proprio coltello. Sarà però facile per la madre portare i giudici ad escludere che che la figlia, “una miserabile tapina, mezza scema e senza vigoria di persona abbia potuto aggredire in prima G. mercé coltello”. Anche perché coltelli costei non ne aveva, né ne aveva mai avuti dal momento che “mancandole il pane quotidiano , non era certo in grado di provvedersi di un oggetto non indispensabile”.

Sappiamo già da quanto detto dalla vicina presente al fatto che Nunzia non aveva in mano nulla al momento dell’uccisione, ma a proposito di pane e coltelli sarà un altro vicino ad offrirci un ultimo metro di valutazione della condizione di  Nunzia e dei suoi dicendo: “la famiglia di costei  soleva prestarsi talvolta il coltello da casa mia per tagliare il pane, ciò che dimostra come niuno di detta famiglia ne possedeva: ritengo ad ogni modo l’A. incapace di aggressione”.

La documentazione consultata per raccontare questa vicenda si ferma qui e qui mi fermo anche io. Sicuramente in un’altra serie giudiziaria che, per motivi di tempo, non ho cercato sarà dato leggere quale pena ebbe il responsabile dell’omicidio.

Personalmente ho provato un crescente stupore mano a mano che procedevo nella lettura delle carte. Sicuramente il delitto è da considerare un femminicidio, ma, a mio parere, nel linguaggio usato dal responsabile nel ricostruire a modo proprio i fatti e nella mancanza di qualunque manifestazione di rimorso, c’è qualcosa di ancora più grave. Per lui Nunzia è uno strumento di piacere sessuale, ma che non renda pubblica la loro relazione e, soprattutto, che non pretenda di vivere insieme a lui. Nunzia è socialmente un’intoccabile e lui appartiene a un’altra casta. A tutelarlo intervengono gli zii e, indirettamente, il prete. A difesa di Nunzia non compare nessuno.

Sapevo che nella storia della nostra regione e del nostro paese c’era stata una zona d’ombra, non la immaginavo così ampia e densa. A indurmi all’esplorazione del fondo giudiziario era stata la lettura di un articoletto di cronaca in cui si  raccontava di un gruppo di donne di Rotondella che, fatta la stagione della mietitura e della trebbiatura nell’agro di Policoro, prima di tornare a casa erano andate sulla spiaggia – sulla spiaggia chiamata all’epoca “delle ruote abbandonate” – a raccogliere un sacchetto di sabbia bagnata da mettere poi in una pentola per ottenere un po’ d’acqua salata. Erano state denunziate dalla guardia di finanza e processate per contrabbando di sale. Volevo cercare un riscontro negli atti processuali a questo episodio cui ancora adesso fatico a credere e non l’ho trovato. Mi sono imbattuto invece in ben altre terribili storie di cui questa non neppure la più brutale e, visto che la consultazione delle carte d’archivio costa tre euro a busta – è questo il modo escogitato dai nostri governanti per risanare le finanze e incoraggiare la ricerca – ho deciso di riprenderne e studiarne qualcuna. Qualcuna fra le migliaia!  

Mi piacerebbe sapere da quelli che hanno letto con attenzione il resoconto di questa vicenda cosa ne pensano. Cosa ne pensano sinceramente, intendo. 

Nota: Archivio di Stato di Matera, Corte di Assise di Matera 1859-1931, II Versamento.

Per motivi di privacy e per quanto, visto il tempo trascorso, non tenuto a termini di legge, in questa sede si omette l’indicazione dell’esatta collocazione archivistica della documentazione. 


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