Un frammento epico di Montescaglioso: Capo del Piano (n’gap u chian) è una passione.

“PARTENZE DA FERMO” è una raccolta di nove racconti scritti da altrettanti autori lucani.

 Spicca fra tutti (e scusate il campanilismo) quello di Peppe Lomonaco: “Capo del Piano” (n’gap u chian).

Le vicende narrate nel racconto di Lomonaco si snodano con ritmo serrato attraverso una chiarezza espositiva derivante dalla genuinità e dalla schiettezza di un linguaggio capace di arrivare direttamente al cuore e di colpire l’anima. Gli ingredienti sono quelli delle giornate della Montescaglioso degli anni 50 o dei primi anni 60,  giornate frenetiche rallentate dallo scandire delle stagioni e da quelle che precedono le festività natalizie.   

Tante storie che si inseguono in un unico racconto, storie fatte di solidarietà, ma anche di cattiveria, di odori e di giochi, di ricordi e di tanta ma, tanta passione.

Parola dopo parola la scrittura di Lomonaco, come per magia,  si trasforma in musica, colori, suoni e odori, quelli che ancora sentiamo quando nei giorni di festa ci piace passeggiare nelle viuzze strette e tortuose, ma a volte anche dritte, che ancora agonizzano prima dell’abbandono totale.

Capo del Piano non è l’immaginario di Lomonaco ma: (come scrive l’autore) “Capo del Piano è un luogo bianco, una passione, un sentimento, un insieme di volti, di mani, di occhi, di cibo, di caldo, di freddo, di odori … Capo del Piano è la storia di tante storie”.

Capo del Piano “n’gap u chian” è ancora lì, sospeso fra il ricordo e un’intenzione, fra il profumo di basilico e l’abbaiare di un cane che, di notte, spaventa chi vuol godere ancora dell’incanto di luoghi capaci di far sognare.

Con un impianto narrativo potente, unico e inimitabile, Lomonaco rende indimenticabili e (permettetemi il titolo di un libro di Mario Capanna) “formidabili quegli anni” che resteranno ancorati alla memoria dei giovani lettori come a quella di chi, quegli anni, li ha vissuti, nel bene, nel male e con tanta ma, tanta passione.


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7 Commenti

  1. aiace

    Domani proverò a scannerizzare la prima pagina del racconto di Lomonaco e la metterò sul sito. Mi chiedo: è lecito fare una cosa del genere senza intaccare gli interessi dell’editore e dell’autore?

    Io provo lo stesso.

  2. LomFrAnz

    POSSIEDO IL LIBRO ED HO AVUTO IL PIACERE DI LEGGERE IL RACCONTO! COME CONSIGLIATO DA CRISTOFORO PUBBLICO UN FRAMMENTO:

     

    Capo del Piano. Peppe Lomonaco

    Capo del piano è un luogo bianco. E’ un rifugio. Capo del Piano è una passione. Capo del Piano è un sentimento. Capo del piano è fatto di voliti, di mani, di occhi, di cibo, di caldo e di freddo. Capo del Piano è fatto di case, di porte, di finestre, di basilico, di beconio e di gerani. Di carrube, di mandorle, di noci e di fichi, e di panni stesi al sole. Capo del Piano è la storia di tante storie. E’ un pezzo di cielo e di nuvol, di sole, vento e pioggia. Capo del Piano sono le donne e i bambini e le bambine. E’ un luogo dell’innocenza. Capo del Piano è una ferita dell’anima. Capo del Piano è una speranza, è un sogno e una aspirazione. E’ una piazza, uno slargo a forma di trapezio irregolare su cui danno le porte delle abitazioni a piano terra e i balconi e le finestre dei piani rialzati. E’ uno spazio acciottolato con le pietre arrotondate e bianche del torrente. La piazzetta e le abitazioni sono dello stesso bianco che, nelle giornate di sole, risplende sotto l’azzurro del cielo punteggiato dal volo delle ciole, delle rondinelle e del falco grillaio. Capo del piano è un pianoro sollevato dal resto del piano e del mondo. […]

     

     

    ps: benchè abbiamo lo stesso cognome, non siamo parenti.

    Auguri al sig. peppe lomonaco

    1. Cristoforo Magistro

      Ho letto, grazie a LomFra, il brano del racconto di Peppe Lomonaco e mi sembra promettere bene. Il pezzo riportato, dovrebbe essere l’inizio della storia, fa pensare a un affannoso riscaldamento dei muscoli per una lunga rincorsa. Sono curioso di leggerla tutta per vedere dove andrà a parare.
      Lo stile è, come già in altre prove, scorrevole e il linguaggio chiaro, ma questo non basta a nascondere l’ingorgo di sentimenti da cui la narrazione sembra nascere. Se così fosse, non mi sembrerebbe un limite: è cosi difficile – lo vediamo, fra l’altro, ogni giorno negli interventi su questo sito – parlare dell’amato-odiato paesello!

      Se chi ha creato l’espressione “luogo dell’anima” fosse pagato un tanto a citazione, oggi sarebbe ricco. Per gli esami di maturità di quest’anno è venuto fuori anche un tema che chiedeva di parlare dei luoghi dell’anima nella tradizione artistico-letteraria: l’addio monti di Manzoni, l’ermo colle di Leopardi, l’Acitrezza di Verga, ecc.
      Sarà possibile inserire nell’antologia di tali luoghi il Capo del Piano di Lomonaco?

      1. aiace

        Ho letto sempre con interesse gli interventi e gli scritti di Cristoforo Magistro e ogni volta mi son detto che Montescaglioso merita uno studioso serio che si dedica con competenza e professionalità e passione alla divulgazione di frammenti di storia che, uno dopo l’altro, contribuiscono ad arricchire il patrimonio culturale di un territorio che per molti anni è stato ferito, maltrattato e martoriato e conoscere e CAPIRE il perchè di tale condizione appartenente alla storia recente di Montescaglioso è cosa molto importante per costruire un futuro migliore per tutti.

        Ho letto con altrettanto interesse il RACCONTO di Lomonaco, che non ha la pretesa di essere il vangelo della storia di Montescaglioso, e in quelle pagine ho rivisto, fotogramma dopo fotogramma, un pezzo di film della mia vita perchè le storie raccontate sono quelle di chi, come me e come tantissime persone della mia età, hanno vissuto gli stenti, i sacrifici, le rinunce e la fame.

        Sono convinto che anche gli stenti, i sacrifici, le rinunce e la fame fanno parte del nostro patrimonio fatto anche di piccole e insignificanti storie che appartengono ai dimenticati, ai “senza storia”.

        E’ doloroso constatare come ogni volta che si parla “dei senza storia” c’è sempre qualcuno pronto a dissacrare, e per fotuna questa volta con ironia,  chi vuole dare voce a quelle persone che, in passato come nel presente, sono senza interlocutori colti e, intellettualmente, evoluti.

        Vorrei solo ricordare a me stesso e a Magistro che il cantautore De Gregori fu denunciato per “plagio” da Iva Zanicchi per aver usato, in una sua canzone, le parole “prendi questa mano zingara” Molti tribunali diedero ragione a De Gregori e la Zanicchi perse le cause.

        La metafora dei “luoghi dell’anima” non può, a parer mio, avere appartenenza o diritti d’autore.

        Non importa se il Lomonaco finirà nelle “antologie” dei pezzi grossi.

        IMPORTA che un montese ha parlato di un frammento (per gli storici insignificante) di vita dei montesi e lo ha fatto in maniera spontanea, originale, con parole semplici, dolci e amare,  e, soprattutto, lo ha fatto col cuore.

        Ha scritto quello che molti di noi avrebbero voluto scrivere, quando iniziano a fare bilanci sugli anni andati.

         

         

         

        1. Mario Ventrelli

          Ho conosciuto Peppe Lomonaco nel 1994 a Matera: eravamo entrambi finalisti al premio letterario Energheia con due storie agli antipodi tra di loro, ma entrambe accomunate da una certa felice goliardia mirata a demolire due grandi miti dell’immaginario collettivo: il mio Al gran bazar di Jack lo Squartato (che poi si aggiudicò quell’edizione) era un’elegia funerea dei primordi del cinema muto. La storia di Peppe invece, ambientata in piena epoca fascista, si chiamava La Visita, cronaca felliniana della visita, appunto, di uno dei tanti Vittorio Emanuele a Montescaglioso (visita per certi versi non meno farsesca di quella effettuata di recente nei nostri paraggi da uno dei suoi più illustri discendenti). Il racconto sfociò poi nel più ampio Visite Eccellenti (di cui, come usa dire, mi onoro di aver scritto la prefazione) che ad oggi ritengo ancora essere la sua opera migliore.

          Da quell’esperienza è nata, con Peppe, una forte amicizia corroborata da lunghe passeggiate tra i suoi olivi di Capjazz e quelli immaginati da Osvaldo Soriano a Buenos Aires. Tra le curve procaci delle sue Peppantonie e quelle non meno morbide  delle donne di Bukowski. Del suo ultimo racconto ho molto amato i profumi, i colori e le atmosfere, molto care a chi, pur non avendo vissuto quel periodo, lo immagina come scivolando nell’elegia: grazie anche al fatto che al paese reale, nel quale al momento non vivo più, si sostituisce più facilmente quello immaginario. Non a caso, soffermandomi a riflettere tra una situazione e l’altra, la mia memoria è tornata ad alcune pagine di quel capolavoro assoluto dello scrittore nuorese Salvatore Satta: Il giorno del giudizio. Per Satta la scrittura era come un groviglio di sentieri, i sentieri di un viaggio nel tempo, tra i morti, dai quali si sentiva invocato. Dice infatti Satta: «In questo remotissimo angolo del mondo, da tutti ignorato fuori che da me, sento che la pace dei morti non esiste, che i morti sono sciolti da tutti i problemi, meno che da uno, quello di essere stati vivi». E poi ancora: «Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati. […] Forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria». Un’opera elegiaca e apocalittica dunque, come nei racconti di Peppe in cui un luogo come Capo del Piano diventa passione, sentimento, occhi, cibo, caldo e freddo. Un freddo dell’anima che solo il calore della memoria può esorcizzare per sempre.

                      Mario Ventrelli

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