Morte di Chirichigno
Ai giorni nostri il capitano dei bersaglieri Enrico Desperati avrebbe chiamato una troupe televisiva per solennizzare l’evento. Magari facendo riprendere in diretta il momento della cattura degli ultimi briganti che ancora agitavano i sonni degli abitanti di Montescaglioso. In particolare, di coloro che ne erano stati, in vario modo, complici.
Dovette invece limitarsi a scrivere al Comandante Generale delle Truppe Attive di Basilicata: «Ho l’onore di annunciare alla S.V.Ill. la presentazione di tre briganti di questo Comune avvenuta ieri 28 febbraio […] mercé la quale il paese può dirsi libero dal brigantaggio che lo affliggeva fino dai primi tempi della rivoluzione italiana».
I briganti che si consegnano sono i fratelli Antonio e Vito Leonardo Scocuzza e Francesco Schiavone, tutti di Montescaglioso.
Siamo nel 1865 nel paese di Rocco Chirichigno, alias Coppolone, e la costituzione degli ultimi uomini della banda segue di appena cinque giorni il ritrovamento del suo cadavere.
Per meglio comprendere la relazione fra la loro resa e il ritrovamento del cadavere di Chirichigno, bisogna esaminare le circostanze della sua uccisione. Cominciando con il dire che non risultano deposizioni di testimoni oculari e che, in generale, le fonti che ne parlano sono discordi. Di certo non c’è neppure la data di ritrovamento del cadavere, stimata fra i quattro e gli otto giorni dopo la morte, a una decina di chilometri dal luogo dello scontro dove era stato ferito. Secondo la documentazione, ciò sarebbe accaduto il 19 febbraio nello scontro con i bersaglieri del capitano Desperati in contrada Imperatore, presso Bernalda. Da lì fu poi portato dai suoi in agro di Ginosa dove morì.[1]
Secondo un’altra ricostruzione, più dettagliata ma non documentata, il capobanda sarebbe stato tradito da un compare e ferito dagli uomini di Davide Mennuni, un valoroso cacciatore di taglie di Genzano di Lucania, nei pressi di Bernalda il 15 febbraio. Poi soccorso e trasferito dai suoi alla masseria Perrone, in agro di Ginosa, sarebbe morto nonostante l’assistenza di un medico due giorni dopo. Ricoperto da pelli di montone, fu seppellito dai compagni che misero perfino dei fiori sulla tomba. Un fatto inusuale in un ambiente di selvaggia violenza
La morte di questo capobanda, il meno sanguinario della Basilicata a detta di molti, fu denunciata al sindaco di Ginosa la sera del 23 febbraio da Francesco e Nunzio Bracciale, gli stessi che ne avevano fatto ritrovare la salma.[2] Dissepolta, per un paio di giorni fu esposta nella piazza in quel comune dove aveva gravitato di più negli ultimi tempi.
In mancanza di più precise testimonianze, non rimane che farci qualche domanda sui punti oscuri della vicenda.
Chi aveva assistito al ferimento del trentatreenne capobanda e l’aveva poi assistito e sepolto? La risposta è scontata, ma non provata. Chi avrebbe potuto farlo se non i suoi uomini e i coloni della masseria Perrone?
E come si era arrivati a sapere di quella morte? Lo vedremo fra un po’. Per farlo dovremo seguire Gasparino Motta che per aver salva la vita si era consegnato e dichiarato disponibile a guidare le truppe nelle perlustrazioni per catturare Chirichigno e gli altri ex compagni. Forse riservandosi in cuor suo di ingannare quei “fessi di piemontesi”.
Arrivato infatti alla masseria Perrone, presso l’attuale Ginosa marina, resosi conto che in uno dei due covi là presenti c’erano ancora gli ex compagni, invece di dare l’allarme aveva portato gli ussari del colonnello Peyssard al secondo covo, distante qualche chilometro. L’ufficiale aveva però sospettato l’inganno e fatto arrestare la guida e i tre coloni della masseria. Ed era stato allora che, per placarlo, uno di questi aveva rivelato che Chirichigno era già morto e lo aveva portato dove era sotterrato.
Resa della sua banda
Nel rigidissimo e nevoso inverno di quell’anno le campagne si erano desertificate e gli ultimi e sempre più rari manutengoli non riuscivano più a rifornire i briganti. Che infatti negli ultimi mesi erano riusciti a stento a sfamarsi e ciò, insieme alla morte del capo e alle pressioni dei parenti affinché si consegnassero, li portano a prendere atto che quella drammatica avventura era finita. Così come, da tempo, era finita la concordia che regnava nella banda.
Quattro giorni dopo la morte di Chirichigno, infatti Vito Rocco Nobile, detto Pascione, fa sapere al capitano dei bersaglieri che presidia Montescaglioso di volersi costituire a condizione che fosse presente il medico Tommaso D’Alessio. L’ufficiale convoca subito il sanitario e insieme, sulla strada delle cantine poco distante dall’abitato, incontrano il brigante che, dopo aver implorato di avere salva la vita, consegna un fucile da caccia e una cartuccera. In dissidio con i compagni, Nobile racconta tutto ciò che da lui si vuol sapere. Avrà parlato anche del “tradimento” di Gasparino per salvarli durante la perlustrazione degli ussari? Di certo riferisce con ricchezza di particolari dove potrebbero stare gli ex compagni.
Dopo quelle rivelazioni è chiamato uno zio dei fratelli Scocuzza e minacciato di arresto se non convince i nipoti a costituirsi. Per essere più persuasivo, l’ufficiale parla dei vantaggi che ne avrebbero avuto. Gli fa anche presente che “se avessero insistito nella loro perfidia” sarebbe riuscito a “prenderli morti in pochi giorni avendo scoperto tutti i loro nidi e tane”. Il vecchio massaro tergiversa dicendo di non sapere dove cercarli e gli viene detto che, se non vuole morire in carcere, ha tre giorni di tempo per risolvere la questione. Messo alle strette, chiede allora di parlare con Nobile che gli dà vari indizi per trovarli.
Dopo poche ore, alle quattro pomeridiane, Ignazio Scocuzza per mezzo di un corriere fa sapere a Desperati che la missione è riuscita. I nipoti, con Francesco Schiavone e il capobanda di Spinazzola Giuseppe Bellettieri, stanno sulla Murgia, in contrada Macchia di Lupo. Per costituirsi, i quattro vogliono come garanti Giuseppe Casella e i medici D’Alessio e Contuzzi. Come mai proprio loro? Forse perché tutti e tre questi personaggi erano stati sospettati in passato di simpatie legittimiste ed erano stati in qualche modo legati a Coppolone e ai suoi? Che fosse quello un modo per far loro capire che se non li avessero assistiti e aiutati avrebbero parlato?
A ogni modo l la richiesta fu accettata e si concordò che i quattro ricercati si sarebbero fatti trovare alle 23 davanti alla cantina del marchese, a pochi metri da Porta Sant’Angelo.
All’ora convenuta, in tre consegnano le armi al capitano. Un’ora prima il capobanda Bellettieri aveva infatti cambiato idea e s’era allontanato temendo di essere fucilato sul posto. Malgrado l’ora e il gelo, una gran folla si raccoglie a Porta Sant’Angelo per assistere all’evento.
Come spesso fanno i vincitori il capitano Desperati piazza nella scena finale della vicenda un colpo di teatro. Questa: «Entrarono quindi in paese gridando Viva il Re Vittorio Emanuele, Viva l’Esercito Italiano a cui fecero eco le entusiastiche voci di una numerosa popolazione ivi raccolta per soddisfare la propria curiosità».[3]
Conclusione
Era questo il bisogno più urgente dei tre in quella gelida notte di febbraio? Quella manifestazione faceva parte dell’accordo? Ne dubitiamo.
Sicuramente l’ufficiale aveva il senso della propaganda e aveva voluto creare un evento, seminare memorie patriottiche nella storia della comunità. Ciò indubbiamente rientrava fra i compiti meno crudeli affidati a un esercito percepito, ma così non era, come straniero.
Diremmo oggi che aveva voluto fare storia pubblica (Pubblic History) in forma incruenta e meno crudele dell’esposizione in piazza dei cadaveri, o delle teste mozzate, dei briganti uccisi.
Per completezza diremo che su ognuno dei quattro pentiti pendevano 71 imputazioni. Ridotta la pena di un grado per essersi presentati, saranno condannati a venti anni di lavori forzati Nobile e gli Scocuzza e a quindici lo Schiavone che si era dato alla campagna prima dei ventuno anni.
Moriranno tutti in carcere. Antonio Scocuzza a Portoferraio il 21 settembre del 1870 dove era detenuto anche il fratello Vito Leonardo. Altri tre fratelli erano caduti nel corso di quegli anni. La madre, uno zio, fidanzate e relative madri erano state varie volte imprigionate con l’accusa di complicità. Mamma Scocuzza dichiarerà: «Il dolore non mi ha permesso nemmeno di rendermi conto della morte dei miei figli».
All’origine di tutto un episodio di assoluta futilità. Il capitano della guardia nazionale di Montescaglioso, – quel notaio Francesco Contangelo cui abbiamo già accennato- perseguitava il maggiore dei fratelli Scocuzza, il già citato Vito Leonardo, poiché una volta gli avrebbe tirato un sasso. Altra causa di persecuzione nei suoi confronti era nel fatto che nel 1860, da militare, fosse sbandato come altre decine di migliaia in quei tempi confusi. Arrestato, era stato poi assolto e regolarmente congedato, e, tornato a casa, assunto come come guardiano di boschi dai marchesi Cattaneo. Ma il notaio Contangelo continuava a perseguitare sia lui che i fratelli, tanto che, dirà, «ci pose alla disperazione e non trovammo altra via che darci in campagna contro ogni nostra volontà».[4]
Gli interrogatori agli ex briganti avrebbero potuto illuminare a giorno cause e circostanze che li avevano portati al malopasso, avrebbero soprattutto potuto dirci chi e perché li aveva sostenuti in quei lunghissimi mesi, ma non c’era la volontà politica di ascoltarli. Manipolati fino all’ultimo momento, il sottoprefetto di Matera attribuirà alle «pratiche fatte da molti proprietari» la loro presentazione e nello stesso tempo insisterà sul fatto che i briganti «furono negativi sul punto di far conoscere quali furono le persone che gli aiutarono durante il tempo che stettero in campagna e forse ciò per istigazione, minacce o promesse delle medesime».[5]
Forse non c’era stato neppure bisogno di nulla di tutto ciò. Proprio a Montescaglioso, due anni prima, dei loro compagni avevano raccontato per filo e per segno la vicenda del sequestro e dell’uccisione del capo della Guardia Nazionale Contangelo, notaio e proprietario terriero, loro commissionata dal suo vice, Tommaso Memmoli, un medico, che -come poi accadrà- ne voleva prendere il posto. Non erano stati creduti proprio perché briganti e a niente era servito far notare che nessuno meglio di loro poteva sapere quelle cose.
Simili episodi potrebbero essere riproposti utilmente e, credo, con successo in occasione di rievocazioni storiche visto l’interesse che la questione brigantaggio continua a suscitare, ma si preferisce anche in questo campo riproporre un’immagine non problematica del fenomeno che fu invece assai complesso
Nota: Questo brano era un approfondimento del saggio “1865-1877 Brigantaggio lucano, gli ultimi fuochi” pubblicato su “MATHERA”, anno III n. 10, del 21 dicembre 2019.
[1] A. Russo, Controrivoluzione e brigantaggio in Basilicata. Il caso Chirichigno, Aracne editrice 2017, pag. 121.
[2] Il brigantaggio a Ginosa, in https://www.facebook.com/ginouesa/posts/1822786994622025
[3] ASM, Corte d’assise b. 104, Presentazione di briganti, nota del capitano Desperati all’Avvocato Fiscale del Tribunale Militare di Guerra, 1° marzo 1865.
[4] ASM, Corte d’Assise b. 104, Interrogatorio di Vito Leonardo Scocuzza del 28 febbraio 1865.
[5] Ib. Nota del 6 marzo 1865.
