Rondò giovanneo

 

E.A.MARIO

Rondò giovanneo 

Pietro Andrisani

 

Notarella polemica

Da qualche decennio italici cittadini, a torto o a ragione, hanno avvertito la necessità di vedere sostituire l’inno nazionale “Fratelli d’Italia” con il “Va pensiero” del Nabucco di Giuseppe Verdi. Circa due mesi addietro rappresentanti della Padania, (la Padania dei tanti lusinghieri epiteti indirizzati all’uomo del Mezzogiorno) hanno manifestato l’idea di utilizzare “La leggenda del Piave” al posto dell’inno di Mameli, ignorandone i natali di quel canto composto in Terronia, dal terrone E. A. Mario, precisamente a Napoli, nel palazzo degli Orsini dei duchi di Gravina di Puglia.

Durante la prima guerra mondiale, per la sua ricca messe di belle canzoni e canti patriottici in lingua e in idioma napoletano, tesi ad alimentare l’amor di patria e il fervore dei combattenti, E. A. Mario era già noto in Italia e nelle Americhe quando compose La leggenda del Piave che divenne lestamente l’inno di una nazione in guerra. Un inno che per molti anni fu considerato adespoto e, per la sua immensa popolarità, la SIAE lo ritenne di dominio pubblico. Ingiusta causale che non permetteva al suo ideatore di beneficiare i meritati diritti d’autore!

 

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Per l’anniversario della nascita di San Giovanni Precursore intendo porgere l’augurio di buon onomastico al semprevivo E, A. Mario, cittadino anelante ad un Paese senza confini e con una seria rinascita culturale, con una scuola pubblica più rispettata, riportando la medesima interpretazione data la mattina del 24 gennaio, 1998, durante la cerimonia d’inaugurazione della 

Sala E. A. Mario

 

nella suggestiva Biblioteca Nazionale di Napoli, Sezione Lucchesi-Palli.

La interpretazione venne intitolata

 

Rondò giovanneo

 

Che riscrivo in memoria dell’affettuoso
padre di famiglia ed insigne didatta

Maestro Nicola MOTOLA

 

 

“Roma, 24 giugno 1961, ore 20.45 circa, sala di regia RAI Radiotelevisione Italiana, sede di via Asiago, piano seminterrato. Io ed un gruppo di collaboratori, dopo aver registrato un programma di musica classica per il quinto canale della filodiffusione, ci accingevamo a sorseggiare un bicchiere di spumante per festeggiare l’onomastico di un collega di nome Giovanni. Fu allora che ci giunse notizia della morte del padre della Leggenda del Piave, di Santa Lucia Luntana, di Ddoje paravise e di tanti altri successi canori vernacolesi o in lingua comunque quasi tutti di intonazione dell’ area napoletana. L’informazione ce l’aveva recata il signor Fiorini, un tecnico-audio che qualche anno prima era stato collaboratore alla messa in onda di una trasmissione radiofonica dello stesso autore dal titolo: Il taccuino di E.A.Mario.

Parafrasando il lapidario Ei fu di manzoniana memoria, il tecnico-audio, molto romanamente, ci annunziò la morte del titolare di quella trasmissione con un semplice vixit (visse).

Tutti noi conoscevamo i successi canori di Giovanni Gaeta mediante le audizioni dai dischi, dalla radio, dalle bande, dalle orchestre di musica leggera, ma negli ultimi tempi avevamo imparato a conoscere anche le sue non comuni doti umanitarie mediante conversazioni sulla cultura canora e poetica partenopea avute con uno studioso che ha dato quasi la vita per diffondere e difendere i diritti e i pregi della canzone napoletana e dei suoi autori. (Anche lui si chiamava Giovanni, Giovanni Sarno, autore fra l’altro, della fortunata trasmissione radiofonica, La Sirena del Golfo, che veniva registrata nella sala di regia adiacente alla nostra).

Si commentò molto sulla vita, sulle opere, ma anche sulla singolare coincidenza della morte di Giovanni Gaeta che era avvenuta proprio nel giorno in cui si fa risalire la nascita del Battista, del titolare del noto inno che, per la geniale intuizione di Guido d’Arezzo, divenne il canto generatore delle nostre note musicali: ut [do] re mi fa sol la… e si  che, come si sa, vengono utilizzate per distinguere l’altezza dei suoni e per comporre e leggere qualsiasi genere di musica.

 

UT queant laxis / REsonare fibris

MIra gestorum / FAmuli tuorum

SOLve polluti / LAbii reatum

Sancte Johannes.

 

(Affinchè possano cantare sulle ampie corde

le meraviglie delle tue gesta, sciogli

agli uomini i legami dell’impuro labbro,

o San Giovanni).

 

Così canta la prima saffica dell’inno alla musica attribuito a Paolo Diacono.

Come se avesse voluto stabilire con quell’inno alla musica il vincolo del comparatico di San Giovanni, Giovanni Gaeta decide di lasciare la vita terrena proprio il 24 di giugno.

Non va trascurato anche il fatto che il nome Giovanni, anticamente, veniva imposto ad un neonato a lungo atteso e giunto quando ormai gli anziani genitori avevano perduto la speranza di essere rallegrati dalla nascita di un figlio come era accaduto ai santi coniugi Elisabetta e Zaccaria e, come avvenne, nel 1884, per i cinquantenni Maria della Monica e Michele Gaeta quando divennero mamma e papà di Giovannino, E.A.Mario.

Va detto, per inciso, che sull’inno a San Giovanni, storicamente attribuito a Paolo Diacono, è stata decifrata la struttura metrico-melodica di una saffica (Est mihi nonum  superantis annum: Orazio C. IV, 11) di un altro cantore di stampo napoletano che, come Giovanni Gaeta, accompagnandosi con uno strumento a plettro, interpretava i propri canti che esprimevano fontane galeotte e amori dolci e velenosi allo stesso tempo: Maria-Vipera di E.A.Mario non fa il paio con Gratidia-Canidia del cantore venosino?

Entrambi i Poeti hanno inaugurato un’era dei cantautori: Orazio sulla scia di Tibullo e di Catullo, E.A.Mario in compagnia di Armando Gill; entrambi hanno redatto l’inno che testimonia un particolarissimo evento della nostra storia. Uno compose il Carmen saeculare che doveva segnare l’inizio di una nuova era e che i posteri l’hanno utilizzato anche per commemorare determinati momenti storici, l’altro ha ideato La leggenda del Piave, l’inno che esalta una  battaglia densa di gloria, determinante per la prima e l’unica guerra che l’Italia ha saputo vincere dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente ad oggi (chissà per quali motivi il pittore del calendario italiano, mezzo secolo fa, ha inteso cambiare il rosso col nero al 4 novembre e al, 20 settembre, date che riportano a Vittorio Veneto e all’Unità d’Italia?).

Quella Leggenda del Piave che, per i suoi valori poetici, musicali e colmi di eroismo e amor di patria riconosciuti innanzitutto dall’anima popolare, e che, nonostante alcune resistenze di ordine politico, con grande merito è entrata a far parte della nostra storia, venne composta, o comunque, ultimata, la notte di San Giovanni Battista, la notte in cui Giano bifronte apre al cielo una delle due porte solstiziali.

Ecco la straordinaria coincidenza di chiamarsi Giovanni, di essere musicista e poeta, di aver composto l’inno più confacente alla storia e ai sentimenti patriottici dei propri connazionali, di festeggiare il proprio onomastico, di solennizzare la propria morte il giorno del solstizio d’estate simboleggiato da San Giovanni Battista.

Il Sanctoriale, libro che contiene le musiche per i santi di ogni giorno dell’anno liturgico, nelle pagine relative alla festa del 24 giugno, elenca ben 24 canti gregoriani, compreso il ricordato inno alla Musica, tutti per San Giovanni Battista.

Per quel Santo Precursore i più grandi compositori e poeti di ogni tempo hanno scritto, dipinto e coreografato fascinosi affreschi artistici. Facciamo solo qualche nome: da circa un millennio tanti grandi pittori hanno effigiato un significativo episodio del Battista, William Shakespeare (Stratford-on-avon, 1564 – ivi, 1616) nel 1594, elabora la fantastica commedia Sogno di una notte di mezza estate (1594), immortalata, oltre che dalle compagnie teatrali, dalle musiche di scena di Felix Mendelssohn-Bartholdy (Amburgo, 1809 – Lipsia, 1847) (Altra coincidenza di ordine Giovanneo: la marcia nuziale composta nel 1843,da Mendelssohnn per la notte del solstizio d’estate divenne l’inno ufficiale per antonomasia da eseguire durante la celebrazione dei matrimoni di ogni ordine e grado e di ogni ceto); Alessandro Stradella (Roma, 1644-Genova,1682) nel 1675 compone il superbo oratorio San Giovanni Battista; Giuseppe Lillo (Galatina, Lecce, 1814 / Napoli, 1863) , nel 1851, al teatro Nuovo di Napoli fece rappresentare la commedia lirica Il Sogno di una notte estiva ossia La Gioventù di Shakespeare; il russo Modest Mussorgski (1839-1881): nel 1874 elabora Una notte su Monte Calvo per coro e orchestra la quale altro non è che La notte di San Giovanni o del solstizio d’estate; lo scandinavo Hugo Emil Alfven (Stoccolma, 1882 – Falun, 1960) nel 1903, fa rappresentare a Stoccolma, il balletto Sogno di una notte d’estate conosciuto anche col titolo Rapsodia svedese (1903); il barese GiovanNino Rota (Milano, 1911 / Roma, 1979), ancora dodicenne fece rappresentare a Milano (1923), l’oratorio L’infanzia di San Giovanni Battista, lavoro a largo respiro e pervaso di melodioso ardore giovanile; il monegasco Richard Strauss (Monaco, 1864–Garmisch, 1949) ed il fiorentino Ezio Camussi (Firenze, 1877–Milano 1956), rispettivamente a Dresda, nel 1901 e a Milano, nel 1920, mettono in scena I fuochi di San Giovanni.

Nel Rinascimento, a Napoli, i Sindaci o, com’erano chiamati allora, gli Eletti del Popolo, venivano nominati a date alterne: il 27 dicembre, giorno di San Giovanni Evangelista e il 24 giugno, durante i festeggiamenti per I fuochi di San Giovanni Precursore, effettuati sulla spiaggia dell’odierna via Marina.

All’inizio del Seicento I fuochi di San Giovanni Battista vengono descritti, con grande dovizia di immagini, di calore e di colore tutto partenopeo in uno degli ultimi capitoli del poema dal titolo Ritratto o modello delle grandezze, delitie e meraviglie della nobilissima Città di Napoli di Giovan Battista del Tufo (un altro Giovanni). Lo stesso titolo potremmo dare all’opera omnia di E.A.Mario o Giovanni Gaeta perché i suoi canti, come quelli del Ritratto di del Tufo, sono il riflesso immediato e vivo del temperamento poetico e appassionato del popolo napoletano, del gusto dei vari momenti della sua vita sociale che pullula e palpita nel panorama naturale e storico della mitica città della Sirena del Golfo.

Se nel Ritratto [] della nobilissima Città di Napoli di Giovan Battista del Tufo si fanno osservare i divini inquilini dell’Olimpo e dell’Arcadia che scendono dai loro stalli celesti per approdare negli ameni lidi di questo Golfo, e testimoniare la loro presenza ai festeggiamenti di San Giovanni Precursore, nei Canti di Giovanni Gaeta E.A.Mario ammiriamo Ddoje viecchie professure ‘e concertine che un giorno pensarono di ascendere in cielo per esercitare, momentaneamente, la loro canora napoletanità fra le decantate delizie dell’altro paradiso; se nei canti di Giovan Battista del Tufo osserviamo i stupor, le meraviglie, le delitie, i piacer, mare, aria e sito, […] della […] bella Patria, altiero vanto de l’altre antique e de le più moderne degne di glorie eterne; in quelli di Giovanni Gaeta rileviamo gli umori, l’habitat di questo popolo tradotti in musica e poesia di profonde espressioni meditative e di elevati accenti lirici.

Restiamo sempre nell’area e nell’epoca di Giovan Battista del Tufo per rilevare, con un riferimento alle origini dei quattro noti conservatori di Napoli che, come si sa, non nacquero per essere scuole di musica ma funzionanti istituti assistenziali per l’infanzia abbandonata, una significativa coincidenza. Va ricordato che molti papà di quegli infanti erano soldati delle truppe di occupazione spagnola a Napoli. Fosse vissuto in quell’epoca, E. A. Mario, con la collaborazione di un Edoardo Nicolardi, avrebbe certamente composto un cantico, una Tammurriata, non sappiamo di quale colore, ma certamente di sapore iberico, per quegli scugnizzi abbandonati proprio come ha fatto nel 1944, elaborando, questa volta, un impietoso peana ai perdenti, un commovente inno per figli nati da mamme napoletane e da babbi di colore giunti qui da noi come miliziani degli Alleati conquistatori o dei nuovi nostri padroni.

E.A..Mario entrava subito in perfetta simbiosi con le diversificate bellezze del modulante paesaggio, ma soprattutto con gli avvenimenti di cronaca sociale più toccanti. 

Tutto ciò che apparteneva alla terra, al cielo, al mare, all’aria, al Sole del popolo napoletano egli l’osservava con l’oculatezza dell’artista di razza e traduceva avvenimenti e paesaggi particolari in affreschi canori pervasi sempre di fulgente vivezza e di fluenti spontaneità melodiche. I suoi versi, agevolmente fruibili da ogni umano intelletto, espressi in stile semplice ed avvolgente, pieni di avvincenti storie d’amore e mai inquinati da impure ideologie politiche, con variegate modulazioni, narrano mezzo secolo di vita canora e sentimentale dei suoi amati concittadini.

La tipologia dei suoi canti è ampia e variegata: va dai racconti di affettuosa intimità domestica di Cara mamma alle narrazioni dominate da struggenti nostalgie o romantiche malinconie di Ll’America  o di Santa Lucia luntana; dai carmi d’indole squisitamente lirica di Canzone appassiunata a quelli di raffinato spirito mordace esaltante la conflittualità di amore odio per Maria – Vipera; dai marziali canti di genuino patriottismo di Soldato ignoto e de La leggenda del Piave ai canti di scabrosa natura sociale di Tammuriata nera e, principalmente, di Balocchi e profumi; tutti comunque costruiti prevalentemente sulla base di appropriate scale grecizanti in minuscole ma deliziose e diversificate architetture foniche.

La leggenda del Piave ad esempio, è stata costruita su di una scala pseudodorica che per i Greci doveva avere un carattere essenzialmente fiero, marziale, educativo; mentre nell’impianto di Canzone appassiunata prevale l’elemento ionico che per gli Elleni doveva adornare di note musicali poesie d’indole patetica, dagli avvincenti affetti o da struggenti desideri; Funtana a ll’ombra , infine, si crogiola su di un’harmonia pseudomisolidia d’indole amorevole e di natura agreste.

Nell’idea che i suoi canti gli sarebbero sopravvissuti E. A. Mario se ne dipartì sillabando alla figlia Italia, con l’ausilio di un alfabetiere, l’incompiuto sto morendo…Certamente egli voleva terminare la frase, poi abbandonò il capo sul braccio di lei e chiuse gli occhi per sempre, racconta Bruna Catalano Gaeta nella biografia di E. A. Mario.

Abbandonando il capo sul braccio della figlia Italia quella frase interrotta, interrogante ed imperativa, allo stesso tempo, acquistò un valore emblematico: Egli voleva esprimere il noto concetto del grande cantore venosino che recita: Non omnis moriar (Non tutto morirò), questa effimera morte segna solo la fine della nascita.

L’estremo desiderio paterno venne accolto dalla sua figliola Bruna, che ponendo in essere il suo indomito temperamento, tenne fede al suo supremo impegno. Con deboli mezzi ma armata di determinata volontà essa onorò questo vincolo filiale divenendo motore trainante della macchina divulgatrice del disegno artistico tracciato dalla vulcanica mente di suo padre. Col suo nobile e robusto impegno essa volle, fortissimamente volle promuovere lodevoli iniziative atte a perpetuare la geniale, incorporea vita canora di E. A. Mario.

L’ultimo atto in ordine di tempo ( ma penso che non sarà proprio l’ultimo) ella l’ha compiuto affidando le preziose testimonianze cartacee alle attente cure della Biblioteca Nazionale di Napoli, sezione “Lucchesi–Palli”, meta obbligata di valenti studiosi, a loro volta, veicoli di vita delle eredità storiche, culturali e artistiche di fervidi menti che meditando profondamente si elevarono tanto in alto da poter osservare le cose di questo mondo con un ottica di portata universale.

Oggi Bruna può finalmente dire di avere assolto ad uno dei suoi obblighi filiali e comunicare al proprio padre che ormai sono state materiate le di lui più rosee attese: la sala della Biblioteca Nazionale di Napoli nella quale d’ora in poi vivranno i suoi preziosi cimeli artistici porta il nome E. A. Mario.

Questo pubblico atto conferma ufficialmente a E. A. Mario l’attestato di stima che gli è stato riconosciuto dai suoi ammiratori e, nello medesimo tempo, permette loro di fruire più agevolmente dei pregiati parti artistici dell’eminente cantore napoletano.

L’impegno coinvolgente di Bruna, teso sempre a lodevoli iniziative per la diffusione dell’opera paterna, ha determinato un contagio a catena, rendendo complice delle sue meritorie proposte una attenta studiosa, Anna Maria Siena Chianese, la quale ha compilato un accurato saggio che, unitamente al meticoloso diario della fervida vita familiare e artistica di E. A. Mario, delinea un documentato spaccato di cinquant’anni di vita italiana, ghiottoneria prelibata per gli amanti di storia e di arte della propria terra.

Noi, parafrasando Foscolo e Properzio, ci limitiamo a confermare che Sol [ per ] chi […] lascia eredità di affetti ( Foscolo, I sepolcri, 41 ) dopo la morte più grande è il nome dell’estinto sulla bocca dei viventi. (Maius ab exsequiis nomen in ora venit, Properzio, Eleg., 3, 1, 24)”.

Pietro Andrisani



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