ANPI: Carlo Salinari

 

Associazione Nazionale Partigiani d’Italia

 

Carlo Salinari

Nato a Montescaglioso (Matera) il 17 novembre 1919, deceduto a Roma il 25 maggio 1977, docente universitario, due Medaglie d’argento al valor militare.

Nato in una famiglia di proprietari benestanti, aveva studiato a Roma dove, nel 1941, si era laureato in Lettere. Divenuto assistente universitario, nel 1941 Salinari si legò all’organizzazione comunista clandestina della Capitale che, dopo l’armistizio, avrebbe dato vita alla Resistenza romana. Il professore, sotto la direzione di Giorgio Amendola, fu a capo (con il nome di battaglia di “Spartaco”), dei Gap capitolini, che tra le tante azioni contro i nazisti che avevano occupato Roma, effettuarono anche quella di via Rasella. Arrestato dai nazifascisti, torturato in via Tasso e condannato a morte, Salinari sfuggì all’esecuzione, grazie alla fuga precipitosa dei tedeschi di fronte all’avanzata degli Alleati. Decorato al valor militare per il contributo dato alla Guerra di Liberazione, Salinari divenne funzionario del PCI e, dal 1951 al 1954, diresse la Sezione culturale del suo partito. Dopo una breve direzione della rivista Il contemporaneo, decise di tornare all’insegnamento universitario, distinguendosi particolarmente negli studi della letteratura italiana. Della sua precedente attività politica ebbe a dire: “Sono sempre stato persuaso di essere miglior studioso che uomo politico”, precisando però “…dico uomo politico e non partigiano, perché, come partigiano, mi sembra di essere stato abbastanza bravo…”. Salinari, dopo aver insegnato letteratura italiana nelle Università di Palermo, Cagliari e Milano, tornò infine a Roma dove, proprio l’anno della sua scomparsa, fu eletto preside della Facoltà di Lettere. Tra le sue opere più importanti basti ricordare: La questione del realismo (1960), Preludio e fine del realismo in Italia (1967) e i volumi della Storia popolare della letteratura italiana (1962), ripubblicati dieci anni dopo col titolo Profilo storico della letteratura italiana. A Carlo Salinari è stata intitolata la Scuola media statale di Montescaglioso. Porta il nome dell’illustre letterato e partigiano anche un largo di Roma.

 


Commenti da Facebook

6 Commenti

    1. drago88

      Carissimo Franco sono stato molto in dubbio circa l’opportunità o meno di rispondere al tuo post.
      Temo infatti di essere pesantemente frainteso e che il mio contributo venga additato come REVISIONISTA.
      Parto da un importante presupposto: NON MI RITENGO orgoglioso che il Carlo Salinari sia un mio concittadino.
      Lo ritengo infatti un vigliacco, attentatore e causa principale dell’eccidio delle Fosse Ardeatine; il massacro di 335 civili e militari italiani, fucilati a Roma il 24 marzo 1944 dalle truppe di occupazione tedesche come rappresaglia per l’attentato partigiano compiuto da membri dei GAP romani (guidati proprio dal Salinari) contro truppe germaniche in transito in via Rasella.

      Partiamo dunque dall’attentato di via Rasella.

      Il pericolo rappresentato dall’imminente avanzata da Sud dalle forze anglo-americane spingeva i soldati tedeschi a lasciare la Capitale.

      Il comando tedesco di 156 uomini della 11ª compagnia del 3º Battaglione “Bozen” al comando del maggiore Hellmuth Dobbrick non erano nulla più che un reparto di polizia]formato da riservisti altoatesini che avevano optato per la cittadinanza tedesca, impiegato a Roma con compiti di semplice vigilanza urbana, in quel momento impegnato in periodo addestrativi. Pertanto il risultato dell’attacco sarebbe stato militarmente inutile..

      L’azione, consistente nella detonazione di un ordigno esplosivo e nel successivo lancio di quattro bombe a mano artigianali sui superstiti, causò la morte di 33 soldati tedeschi (il numero dei decessi avvenuti nelle settimane successive a causa delle ferite non è mai stato definito con certezza) e di due civili italiani (tra cui il bambino Piero Zuccheretti, di 12 anni), mentre almeno altri quattro caddero sotto il fuoco di reazione tedesco.

      La reazione tedesca non si fece attendere: chiesero immediatamente che venissero loro consegnati i responsabili dell’attentato; in caso contrario avrebbero compiuto un massacro. Per ogni soldato tedesco morto per rappresaglia ne avrebbero uccisi dieci.
      CARLO SALINARI ed altri organizzatori non accettarono mai di consegnarsi.
      A tal proposito mi viene in mente il gesto di Salvo d’Acquisto che pur innocente si proclamò colpevole per salvare delle vite umane.
      Alla scadenza dell’ultimatum seguì il gravissimo ECCIDIO DELLE FOSSE ARDEATINE.

       

      Subito dopo l’esplosione di via Rasella, Franco Calamandrei scrisse nel suo diario che «alcuni, soprattutto donne» giudicarono sfavorevolmente l’evento («ora che se ne stavano andando…»), e che dopo la rappresaglia «l’opinione pubblica non le è [all’azione] troppo favorevole. Non si vede l’importanza politica internazionale, che può valere il sacrificio».

      L’agente segreto statunitense Peter Tompkins, operante in Roma al momento dell’attentato, di cui venne a conoscenza soltanto dopo la sua esecuzione, pur essendo in contatto con vari capi della Resistenza romana (Amendola, Giuliano VassalliRiccardo Bauer), nella sua autobiografia pubblicata nel 1962 scrisse: «La prima cosa che pensammo fu che non c’era nessuna utilità nell’uccisione di trenta poliziotti militari tedeschi. Perché piuttosto non avevano rischiato la pelle in un assalto a via Tasso? perché non avevano scelto come bersaglio Kappler e la sua banda di macellai? Chissà quale sarebbe stata adesso la reazione dei tedeschi: di certo non era un buon auspicio per il movimento clandestino della città».

      Negli anni dopo che i familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine nonché i familiari dei civili morti dell’attentato di via Rasella fecero pressioni affinchè si aprisse un processo contro Salinari e soci, i giudici si espressero disponendo l’archiviazione del procedimento penale a carico di Rosario BentivegnaCarla Capponi e Pasquale Balsamo (nel frattempo Salinari era morto).
      Il Giudice escludeva la qualificazione dell’atto come legittima azione di guerra, ravvisando tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage, altresì rilevando tuttavia l’estinzione del reato a seguito dell’amnistia prevista dal decreto 5 aprile 1944 per tutti i reati commessi “per motivi di guerra”.

       

      La questione fu riaperta nel giugno del 1980, quando Marco Pannella affermò pubblicamente che, secondo le informazioni da lui raccolte, «gran parte dei quadri antifascisti e anche comunisti non direttamente organizzati dal PCI e lo stesso comando ufficiale della resistenza romana erano contrari all’ipotesi dell’azione terroristica»; lo stesso leader radicale definì via Rasella «un atto di terrorismo», paragonandolo ad un’azione delle Brigate Rosse[128]. Ne nacque una feroce querelle con Giorgio Amendola e Antonello Trombadori, che era stato il fondatore e il comandante generale dei GAP romani.

       

      Daniele Dragonetti 

       

      1. Franco Mazzoccoli

        Caro Franco, stamattina intendevo ringraziarti per l’inserimento della scheda ANPI su Carlo Salinari. Ma ho scoperto l’intervento di drago 88. Ho scritto una breve risposta. Non so come mandarla a Montenet. Intanto la mando a te e se puoi inserirla ti sarò grato. Diversamente dimmi a chi indirizzarla. Un caro saluto. ****************************** Drago88 può stare tranquillo, non potrà essere frainteso da nessuno. Anzi è chiarissimo nella sua esposizione. Ciò che afferma non è nuovo. I reduci di Salò e gli amnistiati da Togliatti hanno imbrattato tonnellate di carta su questo argomento. Poche cose: I tedeschi nel 1944 a Roma non stavano da turisti in visita ai musei del Vaticano: massacravano, rubavano, rastrellavano sospetti antitedeschi, deportavano gli ebrei. L’azione di via Rasella fu una operazione di guerra perché diretta contro militari di una potenza straniera che occupava militarmente l’Italia (anche il reparto che attraversava via Rasella non era fatto di turisti). L’azione partigiana ebbe luogo il 23 marzo 1944. Alle ore 3 del mattino del 24 marzo 1944 il colonnello Kappler disponeva l’elenco di 320 nominativi di persone da trucidare, se ne aggiunsero altri 15 successivamente. I tedeschi non diedero nessun ultimatum. Passarono alla vendetta immediata con la loro proverbiale efficienza. Anzi, andarono oltre l’efficienza. Continuo a credere che Carlo Salinari (insieme a Carla Capponi e a Rosario Bentivegna) sia un eroe della Resistenza italiana al nazifascismo e ai servi di Salò. Continuo a credere che Carlo Salinari sia stato un grande critico e storico della letteratura italiana. Da montese ne vado orgoglioso di un uomo con gli attributi. Peppe Lomonaco

      2. vince_ditaranto

        Non sono un fan dei partigiani, uno di quelli che vede romanticamente ogni loro azione

        ciononostante credo che le tue affermazioni siano eccessive oltre che pretestuose.

        Come possiamo permetterci di dare del “vigliacco” a chi si trovava a vivere e agire in contesti che nessuno di noi può lontanamente immaginare?

        Fossi in te sarei più cauto.

        E poi non capisco la tua logica, l’azione di Salinari sarebbe la causa principale delle Fosse Ardeatine?

        Della serie che la colpa è di chi fa incazzare i criminali…….non dei criminali! Se ti comporti bene “forse” loro sono anche buoni e ne ammazzano di meno. E’ questa la tua logica?

        Quando leggo certe cose mi si accappona la pelle.

  1. drago88

    Carissimo Vincenzo,
    sono molto felice del fatto che finalmente si parli e si affronti il tema della Resistenza in maniera costruttiva e come nel mio caso partendo non da visioni (o allucinazioni) personali ma da basi storiche e quindi non soggettive.
    Innanzitutto fa accapponare a me la pelle il fatto che nel 2014 (non mi riferisco ai precedenti commenti) si parli e si analizzi il “fenomeno” della Resistenza per ideali e non in maniera serena e quanto mai parziale.
    Parto dal presupposto che la Resistenza è stata ed è tuttora alla base della nascita della democrazia in Italia; la più importante manifestazione di orgoglio e rinascita di un popolo ferito e oppresso dal nemico nazifascista.
    Altro momento di orgoglio (a mio modestissimo parere soprattutto in considerazione della nostra attuale genuflessione dei confronti della Germania) per l’intera nazione di verificò nell’ottobre 1985 con la crisi di Sigonella; ma questa è un’altra storia.

    Faccio partire tutto il mio ragionamento da due importanti analisi.
    La prima: da un’affermazione del 15 maggio 2006 quando il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo discorso di insediamento, celebrò giustamente la Resistenza esaltandone i valori ma, allo stesso tempo, parlò anche di “episodi oscuri” avvenuti nell’ambito di essa.
    La seconda:  dalle tesi sviluppate dal giornalista, saggista e scrittore italiano Giampaolo Pansa.

    A proposito del Pansa, su cui mi soffermerò particolarmente, specifico che le relative tesi sono state oggetto di studio da parte del sottoscritto come da programma scolastico ed universitario (le stesse sono state inserite ufficialmente nel corso di studi di storia) e quindi non affrontate in maniera “leggera” dalla semplice lettura della sua trilogia (Il sangue dei vinti; Sconosciuto 45; La grande Bugia).
    Alle condanne della carta stampata che lo accusava di REVISIONISMO il giornalista fu difeso da Giorgio Napolitano e dall’allora seconda carica dello stato Franco Marino.

    Successivamente Ernesto Galli della LOGGIA (scrittore, giornalista ed editorialista del “Corriere della Sera”) ha giudicato positivamente il lavoro di Pansa, chiedendosi però come mai l’Italia si permetta di far luce sui crimini ignorati della sua storia solo quando sono gli intellettuali di sinistra a renderli noti al grande pubblico. Anche lo storico Sergio Luzzato, dopo una iniziale perplessità che comportò da parte sua anche dure prese di posizione, dichiarò in seguito che nelle sue opere “nulla si inventa” e c’è “rispetto per la storia”.

    Lo scrittore dunque affronta un itinerario nel corso del quale si narrano numerosi episodi di violenza e di sangue, che andarono dalle umiliazioni e sopraffazioni, ai processi sommari ed omicidi esemplari, fino a vere e proprie stragi. Secondo quanto narrato da Pansa, ne fecero le spese indifferentemente fascisti e personaggi accusati di essere spie o collaborazionisti, anche di età molto giovane, i quali furono coinvolti sulla base della parentela con qualche fascista. Inseguiti a fucilate e talvolta assassinati i reduci, alle giovani ausiliarie delle milizie ed organizzazioni fasciste tocca spesso un duro calvario: umiliate e disumanizzate, rasate a zero e trascinate come bestie dome in pubblica piazza, sono esposte al pubblico dileggio cui, a volte, segue un’esecuzione sommaria.

    Per coerenza personale (e per ideali) ho SEMPRE rinnegato qualsiasi tipo di violenza, di sopraffazione, di omicidi.
    Sono sempre stato contrario a qualsivoglia forma di violenza fisica e personalmente ritengo non esistano assassinii giusti ed assassinii sbagliati. Ogni atto in tal senso è deprecabile.
    Potrei sforzarmi di capire, e lo faccio, se tale giustificazione avvenga da chi ha inizialmente subito convivendo con l’efferatezza dei crimini nazifascisti. Tuttavia non accetto che ancora oggi  noi possiamo farlo. Noi dovremmo condannare tutto ciò che equivale a dolore, martirio, sopraffazione.
    Perché noi oggi, e invito tutti a rifletterci, condanniamo la pena di morte (magari negli USA) nei confronti di chiunque a prescindere (anche il più spietato dei serial killer o addirittura molti condannano chi reagisce ad una rapina uccidendo il ladro) e poi accettiamo quel tipo di morte???
    Specifico che non mi sento di parlare in maniera ECUMENICA ma davvero ogni forma di dolore o di morte mi fa star male.
    E non credo che il tutto provenga solo per le mie profonde radici cristiano-cattoliche.
    Credo, infatti, che anche il più ateo tra gli atei debba sempre condannare il male.

    Concludo ricordando a tutti noi la gravosa e vergognosa storia della ragazzina Giuseppina Ghersi (esposta dal sottoscritto con apprezzamenti unanimi durante gli esami di stato).

    Preciso che continuo effettuando un “copia incolla” da un documento Word.

    Giuseppina Ghersi (1931 – 30 aprile 1945) era una studentessa di 13 anni dell’istituto magistrale “Maria Giuseppa Rossello” del quartiere “La Villetta” di Savona. Una bambina accorta e diligente, figlia di commercianti ortofrutticoli abitava in via Tallone, attualmente via Donizetti. Dall’esposto del padre, Giovanni Ghersi, presentato al Procuratore della Repubblica di Savona in data 29 aprile 1949, di cui è possibile chiedere copia all’Archivio di Stato di Savona, e che consta di sei cartelle minuziosamente vergate a mano, leggiamo che: “Il 25 aprile ‘45, alle 5 pomeridiane” i partigiani, appena entrati a Savona, chiedono ai Ghersi del “materiale di medicazione” che la famiglia non esita a “fornire volentieri”. Il giorno successivo, come di consueto, i coniugi si dirigono verso il loro banco di frutta e verdura, ma in zona San Michele, poco dopo le 6.00 del mattino, sono fermati da due partigiani armati di mitra. Vengono portati al Campo di Concentramento di Legino , situato nella zona dell’odierno complesso delle Scuole Medie Guidobono, dove un terzo partigiano sequestra loro le chiavi dell’appartamento e del magazzino. Dopo circa mezz’ora viene deportata al Campo anche la cognata e i partigiani, senza testimoni, possono finalmente procedere rubando le merci dal negozio e tutti i beni della famiglia presenti in casa. Solo Giuseppina manca all’appello perché ospitata da alcuni amici di famiglia in Via Paolo Boselli 6/8. 

    I Ghersi, ormai detenuti da due giorni senza lo straccio di un’accusa, chiedono spiegazioni ai partigiani che rispondono rassicurandoli. Viene loro detto che si tratta di un semplice controllo e che hanno bisogno di fare delle domande alla figlioletta. Siccome Giuseppina aveva precedentemente vinto un concorso a tema ricevendo, via lettera, i complimenti da parte del Segretario Particolare del Duce in persona, trattandosi di una bonaria quisquilia, i genitori si persuadono circa le intenzioni dei partigiani e, accompagnati da uomini armati, vanno a prendere la piccola. L’intera famiglia Ghersi viene dunque tradotta nuovamente al Campo di Concentramento dove inizia il primo giorno di follia. E’ il pomeriggio del 27 Aprile 1945: madre e figlia vengono malmenate e stuprate mentre il padre, bloccato da cinque uomini, è costretto ad assistere al macabro spettacolo percosso dal calcio di un fucile su schiena e testa. Per tutta la durata della scena gli aguzzini chiedono al padre di rivelare dove avesse nascosto altro denaro e oggetti preziosi.

    Giuseppina cade probabilmente in stato comatoso perché, come riferisce l’esposto al Procuratore, “non aveva più la forza di chiamare suo papà”.

    Verso sera inizia a piovere e le belve, stanche di soddisfare i propri istinti, conducono Giovanni e Laura Ghersi presso il Comando Partigiano di Via Niella dove viene chiaramente detto che a loro carico non è emerso nulla. Nonostante ciò i partigiani li rinchiudono nel carcere Sant’Agostino.
    Giuseppina subisce da sola un lungo calvario di sofferenze finché, il 30 Aprile 1945, viene finita con un colpo di pistola per poi essere gettata davanti alle mura del Cimitero di Zinola su un cumulo di cadaveri. Il corpo viene disteso dal personale del luogo nella fila dei riconoscimenti dove per diversi giorni. Qui viene notato dal Sig. Stelvio Murialdo per alcuni agghiaccianti particolari. Riportiamo, testualmente, dalla memoria del Sig. Stelvio Murialdo: “E proprio il primo era un cadavere di donna molto giovane; erano terribili le condizioni in cui l’ avevano ridotta, evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza riuscire a cancellare la sua giovane eta’. Una mano pietosa aveva steso su di lei una SUDICIA COPERTA GRIGIA che parzialmente la ricopriva dal collo alle ginocchia. La guerra ci aveva costretto a vedere tanti cadaveri e in verità, la morte concede ai morti una distesa serenità; ma lei , quella sconosciuta ragazza NO!!! L’ orrore era rimasto impresso sul suo viso, una maschera di sangue, con un occhio bluastro, tumefatto e l’ altro spalancato sull’ inferno. Ricordo che non riuscivo, come paralizzato, a staccarmi da quella povera disarticolata marionetta, con un braccio irrigidito verso l’ alto,come a proteggere la fronte, mentre un dito spezzato era piegato verso il dorso della mano.”

    La Sig.ra Ghersi viene rilasciata dopo 12 giorni di detenzione ed è costretta a recarsi presso al sede Comunista del quartiere Fornaci per domandare le chiavi della propria casa. Queste le vengono restituite solo il giorno successivo quando, accompagnata da un caporione del PCI, può riappropriarsi parzialmente dell’appartamento: il funzionario politico provvede infatti a sigillare tutte le camere eccetto una stanzetta e la cucina.

    E’ quasi estate e il marito viene liberato dal carcere l’11 giugno senza mai essere stato interrogato per tutta la durata della detenzione. In questa circostanza apprende la notizia della morte di sua figlia e, nonostante il tremendo peso che aggrava il suo cuore, ritrova dentro casa la moglie prossima alla follia.

    Il Sig. Ghersi si rivolge alla Questura dove, per via delle ruberie, gli viene corrisposto un acconto di 150.000 Lire mentre un agente si offre d’aiutarlo nella rimozione dei sigilli apposti ai locali della propria casa.

    L’uomo, dovendo provvedere a moglie e cognata, viene assunto “per compassione” presso il consorzio ortofrutticolo dove riesce a percepire il minimo necessario per sopravvivere.
    Sembra quasi che le cose tendano verso una certa normalizzazione, quando la notte dell’11 Luglio, a un mese esatto dalla scarcerazione di Giovanni, si iniziano ad avvertire alcuni rumori che svegliano di sobbalzo la famiglia. Un gruppo non identificato di persone cerca di forzare la porta di casa Ghersi che, fortunatamente, non cede.

    Giovanni e Laura non riescono più a sostenere l’onere delle violenze subite e fuggono da Savona affrontando una vita di stenti e povertà incontrando in ogni dove il sospetto dei funzionari politici del Pci. Situazione del tutto simile a quella dei profughi istriani che, giunti in Italia, si trovano costretti a fuggire in altri paesi per via della pressione esercitata sul Governo, da parte del Partito Comunista Italiano. “Abbiamo dovuto scappare – si legge nell’esposto del Sig Giovanni – all’alba come ladri, da casa nostra, dalla nostra città , senza mezzi e senza lavoro, vivendo per anni in povertà e miseria, pur sapendo che gli assassini della mia bambina di appena 13 anni, vivevano nel lusso impuniti, onorati e riveriti, con i nostri soldi e di tutti quelli che erano morti o che erano dovuti scappare.

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