Montesi nella Grande Guerra

La Grande Guerra è stato l’evento che insieme all’emigrazione ha potentemente contribuito a “fare gli italiani” e, giustamente, in occasione del centenario dal suo inizio se ne sta parlando molto in tutti i paesi che vi parteciparono. Anche da noi che entrammo nel conflitto più tardi (Maggio 1915) e contro la volontà della stragrande maggioranza del popolo e del parlamento. Non è il caso di richiamare qui quali furono le cause, gli esiti e molteplici aspetti del suo svolgimento -a ciò hanno provveduto opere di grande valore scientifico-  ma vogliamo ricordare che l’intervento fu voluto da una minoranza rumorosa dei ceti borghesi delle grandi città, ma al fronte andò poi soprattutto il proletariato delle campagne.

La Basilicata fu tra le regioni che, in rapporto alla popolazione, diede più uomini, ebbe meno esoneri ed ebbe più caduti senza poi avere nessuno dei benefici indiretti che il conflitto portò alle regioni del nord.

E di ciò ci occuperemo qui, dei soldati e dei caduti partiti dai nostri paesi, vale a dire principalmente dei fanti contadini. Quei fanti ai quali, tanto per dirne una, il ministero della guerra, a meno di un mese all’inizio del conflitto, fece sapere che era meglio se si portavano da casa la biancheria personale. 

Non sembrò un buon inizio, ma ormai la grande fiera del patriottismo era stata inaugurata .

Si riportano qui di seguito i nomi dei montesi che pagarono con la vita la scelta fatta dalla decina di uomini che precipitarono il mondo in quella tragedia.

Il più giovane, Vito Agatiello, morì quando non aveva neppure compiuto i diciotto anni; il più vecchio, Giovanni Grippo, ne aveva quaranta. Il primo caduto fu Biagio Panico (8 luglio 1915), l’ultimo Giuseppe Scocuzza (febbraio 1919). I nominativi riportati a mano si riferiscono a quanti sono citati nel volume Basilicata nel Mondo, volume 3, 1925, pag-. LXVIII-LXIX, ma non sono riportati nell’Albo d’Oro.

Invito chi avesse del materiale al riguardo a metterlo on line qui e sul bellissimo sito http://www.europeana1914-1918.eu/it.

Quanto qui riportato è stato tratto con grande pazienza dal sito http://www.cadutigrandeguerra.it/


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13 Commenti

  1. Cristoforo Magistro

    I nostri soldati erano male equipaggiati e spesso trattati dagli ufficiali come truppe di colore. La crisi che serpeggiava fra le loro fila esplose a Caporetto il 24 ottobre del 1917, dopo due anni e mezzo di guerra e undici battaglie sull’Isonzo, dove il fronte italiano cedette in alcuni settori e gli austro-tedeschi dilagarono nel nostro territorio fino al quando (12 novembre), a partire dalla linea del fiume Piave comincio la controffensiva..

    La sconfitta ebbe ripercussioni sull’esercito e sull’intera classe dirigente militare e politica di allora, ma soprattutto sulla popolazione civile che sino a quel momento aveva vissuto  la guerra da “lontano”.

    Qualche numero può servire a comprendere la dimensione dell’evento: 300.000 prigionieri, 350.000 soldati allo sbando, 265.000 profughi, 11.600 caduti, un numero imprecisato di condannati per diserzione.

    Tutta la responsabilità infatti fu data ad alcuni reparti del 149° fanteria e del III battaglione del 79° fanteria che furono additati all’odio e al disprezzo dell’intero paese.

    Si allega il proclama del re e del generale Cadorna.

    Ma aldilà di questo, gli episodi di diserzione furono numerosissimi in tutti gli eserciti. Il mio nonno materno, che insieme ad altri tre fratelli partecipò al conflitto, mi raccontava di un suo fratello, Vito Dichio, che, tornato in licenza, non voleva più tornare al fronte, ma i genitori non glielo permisero. Tornato in zona di guerra, dopo un mese fu dichiarato disperso. La madre non si perdonò mai la sua morte.

    A titolo di esempio – e sicuramente non per screditarne la memoria- si allega qui un elenco di soldati di Matera condannati per diserzione. Molti di loro erano stati feriti in combattimento. 


  2. Cristoforo Magistro

    Una delle polemiche che più accese gli animi durante e dopo la guerra fu quella sugli imboscati, cioè su quanti, avendo mezzi economici e appoggi importanti, riuscirono a non andare al fronte. É inutile precisare che a godere di esoneri, lunghe licenze, assegnazioni a retrovie, ecc., furono soprattutto i signoroni che più avevano strepitato affinchè l’Italia intervenisse nel conflitto.

    Tale polemica non nasceva solo da ragioni etiche e di giustizia, ma anche da motivi politici; o, meglio, di lotta fra le fazioni. Un consigliere o capo della fazione avversa chiamato alle armi cambiava gli equilibri interni al consiglio comunale e quindi rafforzava il proprio partito. Da qui reclami, lettere anonime, meschinità e polemiche a non finire.

    Quella che qui si documenta è un esempio, per così dire, di “alto livello” di quelle battaglie, ma se ne potrebbero documentare tanti altri.

    Lo scrivente è Nicola De Ruggieri, il destinatario è il capo del governo Vittorio Emanuele Orlando, l’imboscato segnalato è il montese Francesco D’Alessio che da quando De Ruggieri è deputato, cioè dal 1913, si prepara il terreno per scalzarlo e subentrargli nella carica muovendo critiche, spesso infondate e strumentali, a ogni suo atto.

    Ambedue sono massoni: De Ruggeri apparteneva al Grande Oriente d’Italia, o massoneria di Palazzo Giustiniani; D’Alessio, cattolicissimo in Basilicata, era iscritto a Roma alla massoneria di Rito Scozzese che aveva sede in Piazza del Gesù.

    Grazie all’abolizione del collegio uninominale e il passaggio al sistema proporzionale, il 15 novembre del 1919 saranno eletti tutti e due: il primo nella lista Nitti che era in quel momento al governo, il secondo (che pure aveva sperato e brigato per essere candidato con il presidente del consiglio) con una formazione personale, la lista Bandiera. Ciò gli consentirà poi di vantarsi di essere stato il primo antinittiano della regione.

    Conseguentemente, nelle elezioni del 15 maggio 1921, D’Alessio sarà l’uomo su cui Giolitti punta per ridimensionare il peso politico ed elettorale di Nitti in Basilicata. Per sostenere questa guerra fratricida che porterà all’autodissoluzione del sistema liberale, D’Alessio sarà protetto dalla prefettura, finanziato dal ministero degli interni e sostenuto da squadre prezzolate di arditi guidati da un nipote di Garibaldi e potrà avviare una tale campagna di violenze da costringere il nittiano De Ruggieri a ritirare la sua candidatura. 

     

     

    Riservata

    Roma 14-7-1918

     

    Caro Presidente

    Per non rubarvi un minuto solo alle grandi cose che compite, e per non pervertire queste con le cose piccole e misere, ho parlato con l’ottimo Comm. Flores.

    Gli ho detto che il noto Prof. D’Alessio, mio presunto avversario, che a Roma fa il liberale conservatore dicendosi seguace di Salandra, nel mio collegio di Matera tresca con i socialisti, andando fin nella Lega dei contadini. Gli ho soggiunto e glielo hanno autorevolmente confermato gli on. Mendaja e Materi, che, altra volta quando io mi dolsi con voi degli intrighi del D’Alessio presso il Ministero e il Prefetto, voi, alla presenza di quattro deputati lucani, chiamaste Corradini e gli ordinaste: «Tenete lontano dal mio ministero questo volgare venditore di fumo!».

    Ora, mentre io, seguendo la vostra politica, faccio nel Collegio una politica di conciliazione, senza badare ad amici o avversari e sono lungi da una politica elettorale, il D’Alessio, all’ombra della guerra fa una politica elettorale, a mezza voce additandomi come fautore della guerra e lusingando i poveri elettori, specie contadini, con promesse.

    Si noti che potrebbe essere richiamato in servizio militare, essendo stato ufficiale dei granatieri. Invece cerca e si è imboscato con scandalo di tutti.

    Ora vi prego dare solleciti e tassativi ordini al Prefetto di Potenza perchè siano, in ogni caso, lontani dagli intrighi del D’Alessio, che sostengano invece me, che seguo la vostra politica e non debbo essere lasciato indifeso.

    Sono sicuro della vostra benevolenza.

    Cordialmente,

    vostro Nicola De Ruggieri

     

    (Fonte: Archivio di Stato di Matera, Archivio privato De Ruggeri, Cartella 11, Elezioni Politiche 1919).

    1. Cristoforo Magistro

      Nel 1919 Francesco D’Alessio (Montescaglioso 27 maggio 1886, Roma 1 aprile 1949) cercherà di farsi candidare nella lista del capo del governo Francesco Saverio Nitti, ma ne sarà escluso. Creerà allora un partito personale grazie al quale, mettendo all’incasso i debiti di riconoscenza per l’assistenza in pratiche burocratiche data ai combattenti – da lui come segretario al Commissariato civile di assistenza ai profughi e dal fratello Tommaso come funzionario in un importante ministero- riuscirà a conquistare un seggio in parlamento.

      A Montescaglioso il suo partito era conosciuto come il “partito di sopra” perchè l’abitazione di famiglia si trovava nell’attuale Via Gramsci, nei pressi dell’abbazia; il”partito di sotto”faceva invece capo a Gianbattista Andriulli residente in via Garibaldi e sosteneva il deputato in carica Nicola De Ruggieri la cui affermazione era stata favorita dai cognati, i fratelli Lacava, che avevano estese proprietà terriere fra Bernalda, Montalbano e Montescaglioso e grande influenza politica su questi territori in quanto nipoti di Pietro Lacava ( 26 ottobre 1835 – 26 dicembre 1912), plenipotenziario di Giolitti su tutto il Mezzogiorno continentale per un decennio, e del senatore Carmine Senise.  

      Una delle accuse che come un’ombra seguirà D’Alessio per tutta la sua carriera politica, sarà quella di essersi imboscato e servito della carica di segretario al Commissariato dei profughi per crearsi una clientela elettorale.

       A tre mesi dalle elezioni, il 30 Luglio 1919, D’Alessio spiega , in un’intervista a “La Basilicata”, di non aver fatto la guerra perchè era stato riformato e perchè il rettore dell’università dove insegnava non gli aveva concesso il nulla osta.

      In un paese che aveva fatto di Enrico Toti, che, privo di una gamba, s’era arruolato fra i bersaglieri ed era morto in battaglia, il simbolo stesso dell’eroismo, la sua giustificazione apparirà piuttosto debole. Soprattutto se si considera che negli ultimi mesi del conflitto erano sotto le armi ventisei classi di leva (i nati fra il 1874 e il 1900), vale a dire anziani e ragazzini, rachitici e obesi, talentuosi e dementi e chiunque fosse stato capace di reggersi in piedi.

      NOTA: l’intervista a D’Alessio è riportata nel secondo allegato a “Montesi nella grande guerra” con il titolo imboscati11 

    1. Cristoforo Magistro

      Ricordo di aver sentito quando ero ragazzino parlare della Grande Guerra come di un qualcosa di preannunciato da segni premonitori e ricordo anche quanto quei racconti mi affascinassero e, nello stesso tempo, non mi convincessero del tutto.

      Così come per tante altre storie, suggestioni e frammenti di avvenimenti ascoltati in quegli anni (anni di grandi vecchi depositari di magnifiche storie ai confini della leggenda della cui memorabilità erano assolutamente convinti), per quelle “premonizioni” mi è poi capitato di trovare riscontri documentali. Per altri accadimenti può capitare di trovarne altri che, anche quando non ne comprovano la veridicità; anzi, anche quando la smentiscono, aiutano a capire come simili narrazioni -per usare un termine alla moda – nascessero in un ambiente sempre oscillante fra un piano di dura realtà e la fuga nel mito.

      Ma, dicevo della guerra come evento preannunciato da prodigi, un qualcosa al quale ai giorni nostri si fa fatica a credere. L’enciclopedia Treccani dà del termine prodigio una spiegazione che conviene tenere a mente. Questa: “prodigio Nella storia delle religioni […]qualsiasi fatto non usuale interpretato come segno dell’ira divina o comunque premonitore di disastri. Questi ultimi, appunto perché preannunciati dal p., si possono evitare mediante un rito appropriato (che i Romani chiamavano procuratio). I p. possono essere fatti naturali, ma rari (terremoto, eclissi, meteore, fulmini a ciel sereno), nascite di esseri mostruosi (lat.monstra) come vitelli a due teste, pulcini a quattro zampe ecc. Il concetto del p. si fonda su un’intuitiva visione unitaria del cosmo in cui ogni squilibrio su un piano si ripercuote con squilibri su altri piani”.

      In un paese che aveva nell’agricoltura la sua fondamentale, e pressoché unica, risorsa, cosa poteva esserci di più terribilmente e prodigiosamente squilibrante di un’annata agricola di terribile siccità (1913-’14), seguita da un’altra di piogge così rovinose (1914-’15) da compromettere le semine  per l’annata successiva? In frangenti come quelli nel mondo contadino ogni iniziativa veniva sospesa: che fosse un matrimonio, la costruzione di una casa, l’acquisto di un abito nuovo. Significava anche questo il detto ” piegati giunco, che passa la fiumara!”, non muoverti fino a quando il pericolo non è passato.

      Avrebbe sottoscritto il patto segreto di Londra (26 aprile 1915), che impegnava l’Italia ad entrare in guerra entro un mese, un governo che avesse avuto una cultura del genere?

      Riesce difficile crederlo dal momento che le popolazioni meridionali, isole comprese (anzi per la Sardegna il 1914 fu il terzo anno di mancanza di piogge tanto che si rese necessario emanare provvedimenti straordinari), avevano già provato – in quell’anno e in quello precedente – i brividi della lotta per la sopravvivenza senza il bisogno di andare in guerra.

      Ma ecco come si presentava la situazione delle campagne nel 1914 secondo alcuni memoriali prodotti a Montescaglioso, Pisticci e Pomarico e inviati al deputato del collegio Nicola De Ruggieri affinchè chiedesse al governo provvedimenti (sgravi fiscali, credito agevolato, lavori pubblici) che mitigassero la gravità delle condizioni in cui le popolazioni erano venute a trovarsi. 

       

      Nota: l’articolo completo è allegato in pdf con il titolo “Segni premonitori” a “Montesi nella Grande Guerra” 

      1. pierod.58

        Del magnifico articolo di Cristoforo mi colpisce, in particolare, l’ultimo periodo:

        Ma ecco come si presentava la situazione delle campagne nel 1914 secondo alcuni memoriali prodotti a Montescaglioso, Pisticci e Pomarico e inviati al deputato del collegio Nicola De Ruggieri affinchè chiedesse al governo provvedimenti (sgravi fiscali, credito agevolato, lavori pubblici) che mitigassero la gravità delle condizioni in cui le popolazioni erano venute a trovarsi.

        A parte il nome del politico di turno, vi sembra che siano passati 100 anni da quella situazione?

  3. Cristoforo Magistro

    Ringrazio Libertine e Piero D. per l’apprezzamento. In verità con Piero siamo d’accordo, secondo una diffusa usanza, sul fatto che ogni tanto, per tirarci su, lui loda me io lodo lui. Essendo attualmente in debito gli rinnovo  i complimenti per il suo romanzo.

    Scherzi a parte: nell’aprire questo post sulla guerra europea speravo che ci fosse una qualche fattiva partecipazione da parte dei frequentatori del sito. Così, come già sperimentato altre volte, non è stato e non ne capisco bene il motivo.

    Credo che in molte famiglie ci sia la foto del nonno o del bisnonno soldato. Non sarebbe bello onorarne la memoria presentandolo alla comunità?

    Da parte mia continuerò a proporre fino alla noia -intendo la mia- materiali sulla questione. In gran parte materiali grigi, cioè documentazione grezza e scarse considerazioni, poiché: A) non mi basterebbe la vita per usare come si dovrebbe tutte le carte rilevate andando per archivi; B) spero di offrire a chi è interessato a perdere tempo e salute in queste cose un grossolano modello sul tipo di fonti usate da chi ama attingere notizie di prima mano nella ricostruzione dei fatti storici. 

  4. Cristoforo Magistro

    La modernità della Grande Guerra rispetto ai conflitti del passato si manifestò anche nell’uso della propaganda a favore dei propri eserciti. Una propaganda finalizzata soprattutto alla raccolta di mezzi finanziari per sostenere lo sforzo bellico. 

    Anche in questo ogni paese dimostrò un suo particolare stile.

    Ecco alcuni manifesti italiani.

  5. pierod.58

    Sarebbe utile sapere se quel prestito fu poi interamente rimborsato dallo Stato Italiano. Suppongo che per gran parte ciò avvenne, ma ritengo, con altrettanta sicurezza, che buona parte di esso rimase nelle casse dello Stato perché nessuno ne richiese la restituzione. Nei periodi di guerra avveniva spesso.

  6. Cristoforo Magistro

    La questione degli imboscati durante la Grande Guerra fu uno specchio e una cartina al tornasole delle caratteristiche e delle storture dell’Italia di quegli anni.

    Ecco come tratta il tema lo storico Piero Melograni

     

    Gli imboscati

     

    La questione degli «imboscati» agitò più di ogni altra l’animo dei combattenti. Il termine stesso di imboscato acquistò durante la guerra il significato nuovo che ad esso oggi attribuiamo. Fino alla grande guerra «imboscarsi» aveva voluto dire nascondersi in un bosco per tendere insidie al nemico. Dopo di allora servì ad esprimere un concetto molto diverso se non addirittura opposto: sottrarsi, cioè, al servizio di guerra restando in un posto lontano dal fronte. Imboscato, in senso ironico dunque, divenne colui che non cercava il nemico ma stava ad attenderlo in luogo – almeno per il momento – tranquillo. «Imboscato» disse A. Baldini, era: «Una parola a dondolo, per cancellare gli imbarazzi: non una parola come disertore, traditore, parole a picco, dalle quali si precipita; sferzante, ma imbrogliata come una frusta che s’infiocca e annoda in aria e quando colpisce non fa più male. Nessuno direbbe per ischerzo: ho tradito; son tanti a confes­sare: mi sono imboscato»(84). Nel gergo dei militari gli imbo­scati furono definiti anche con altri termini canzonatori: sale­siani, ciclamini, filugelli. Il concetto di imboscato fu alquanto variabile: chi stava in una trincea particolarmente esposta considerava imboscati coloro che occupavano una posizione meno pericolosa; coloro che combattevano sul fronte dell’Isonzo giudicavano imboscati i fanti delle armate schierate tra lo Stelvio e la Carnia: le chiamavano «armate della salute», e la prima armata – per la relativa calma che regnò sul suo fronte durante il primo anno di guerra – ricevette l’appella­tivo di «serenissima».  Per i fanti erano imboscati gli arti­glieri, e per l’intero esercito, infine, erano imboscati tutti gli italiani che non si trovavano in zona di guerra.

    Il fante di trincea aveva diviso l’esercito in quattro categorie:

    1)      i fessi, come lui, che combattevano in prima linea;

    2)      i fissi, presso i comandi (da quello di divisione in su);

    3)      gli italiani, nelle retrovie;

    4)      gli italianissimi, all’interno del paese

    Alcune canzoni popolari sul tema degli imboscati otten­nero un improvviso successo. Ne furono composte parecchie, e una delle più famose fu quella scritta da «Galucio ‘1 barbon», poeta torinese, che cominciava coi versi:

    « Il General Cadorna ha chiesto dei soldati

     Rispose Re Vittorio, le mando gli imboscati

     E passerem la visita a tutti i riformati

     Din don dan, al fronte non ci van . . . ».

    Il poeta Totila Baduilla, di Codogno, scrisse una Canzone dell’imboscato, parodia di «Addio mia bella addio », dove questa volta:

    «L’armata se ne va

      Però non parto io

      Che invece resto qua

      […] Ed ecco l’avvocato

      Spazzino diventar;

      Il dotto lau­reato

      Il fieno maciullar.

      Ed ecco l’ingegnere

      Vuotare anche il pital,

      Addetto all’infermiere

      Del civico ospital!

      Ed ecco professori,

      E illustri cavalier,

      Dottor, commen­datori,

      Far anche il carrettier» 88.

    A Udine, presso il Co­mando supremo, vivevano alcuni imboscati di lusso. Il Co­mando, come scrisse U. Ojetti nel luglio del ‘15, era pieno di ufficiali che avevano ben poco da fare. Piero Pirelli, ufficiale di segreteria addetto all’ufficio cifra, doveva giornalmente deci­frare si e no cinque telegrammi. Il giovane sottotenente Edoardo Agnelli era vice-direttore del parco automobilistico del Comando supremo, alle dipendenze di un capitano che nella vita civile dirigeva il garage Fiat di Milano, ed Ojetti commentava: Agnelli «quindi è quasi il padrone». Il figlio del senatore Gavazzi aveva grado di sergente, con mansioni di chauffeur presso lo stesso Ojetti 69. Una canzoncina in voga nell’esercito diceva che:

    «Da Cividale a Udine

     Ci stanno gl’imboscati

     Hanno gambali lucidi,

     Capelli profumati»

    Molti accusarono il presidente Salandra di aver dato per primo il cattivo esempio imboscando, «con ostinata perseveranza», tutti e tre i suoi figli! 91

    Il  problema fu avvertito dai soldati in forma molto più acuta di quel che gli ironici versi delle loro canzoni potreb­bero a prima vista lasciar credere. Padre Gemelli dichiarò che il fenomeno dell’imboscamento costituì il principale tema di conversazione nelle trincee 92

    Nell’ottobre 1915 il governo istituì un’imposta sulle esen­zioni dal servizio militare, alla quale furono assoggettati i ri­formati e gli esonerati, costituita da una quota annua di sei lire per coloro che avevano redditi inferiori alle mille lire an­nue, integrata da contributi supplementari per chi avesse go­duto di redditi superiori. I soldati la battezzarono «tassa sugli imboscati» e molti credettero che bastasse pagarla per ottenere l’esonero93

    Secondo G. Prezzolini l’odio generale delle truppe verso gli imboscati non nasceva da un sentimento di giustizia offesa, ma dall’egoistico desiderio di ripartire fra tutti, e in parti eguali, i rischi e i disagi della guerra. Tutti gli artiglieri, gli automobilisti e gli operai addetti alla produzione di guerra avrebbero dovuto combattere, insomma, per almeno sei mesi in fanteria, e ciò «non per vincere prima, ma per contentare i più». Si trattava, secondo Prezzolini, di un «pregiudizio democratico», nel quale, cioè, troppo parlava l’invidia, e poco l’interesse del paese, poiché l’opera di disboscamento non avrebbe mai dovuto essere compiuta in base al criterio errato di lasciare gli inabili negli uffici e di trasferire gli abili al fronte. Non bisognava scordare che in una grande guerra gli uffici e i servizi assumevano spesso un’importanza tale da su­perare quella del fronte, di modo che- diceva sempre Prez­zolini – il criterio giusto avrebbe dovuto essere quello della utilità e speditezza dei servizi stessi, quello della più razionale utilizzazione delle competenze, quello di scacciare gli incapaci dai posti che occupavano, al fronte o nel paese(94).

    Non è facile far comprendere al soldato che i cittadini ri­masti negli uffici o negli stabilimenti possono essere utili alla vittoria quanto e talvolta più di lui. La protesta dei combat­tenti contro le esenzioni dal servizio militare può essere quindi considerata come un dato di carattere permanente nelle grandi guerre moderne(95). Ma in Italia, cinquant’anni or sono, quella protesta raggiunse un grado di esasperazione davvero eccezio­nale. Abbiamo già detto che la fanteria, nella sua grande mag­gioranza era composta da contadini. La quasi totalità degli operai industriali, invece, erano esonerati per legge dal servizio militare. Inoltre gli operai richiamati alle armi milita­vano molto raramente in fanteria poiché, se conoscevano sia pure superficialmente un motore o sapevano maneggiare un attrezzo, erano avviati a far parte di altri corpi. Per il fante-contadino, dunque, dire operaio equivaleva dire imboscato, na­scosto in qualche corpo speciale o più spesso rimasto in città a guadagnare paghe sempre più elevate e a sfruttare in qual­che modo la guerra. «La guerra la fanno i contadini!» gridò alla Camera l’on. Soderini. «La pagano col loro sangue in pro­porzione del 75 per cento», confermò l’on. G. Ferri(96). Soprat­tutto suscitò indignazione il fatto che un gran numero di gio­vani validi fossero entrati nelle industrie mobilitate per la produzione bellica. L’on. Francesco Ciccotti disse che alcuni imprenditori traevano un lucro occulto ed illecito facendo pas­sare per operai parecchi giovani di buona famiglia, e che addi­rittura erano stati impiantati degli opifici non tanto per fab­bricare armi e munizioni, quanto per organizzare l’imboscamento, «industria più profittevole di ogni altra»(97).

    In realtà le industrie destinate alla produzione di guerra erano state costrette a reclutare in gran parte elementi improv­visati. Il ministro della Guerra, gen. Zupelli, trovò facili argo­menti per spiegare ai deputati che in Italia, al principio della guerra, esisteva una modestissima industria metallurgica, e che mentre l’Italia, in passato, aveva sempre potuto fornire ster­ratori, muratori e falegnami a tutto il mondo, non aveva mai avuto operai metallurgici altro che per le sue pochissime fab­briche. Lo sviluppo dovuto alle esigenze di guerra si era dun­que necessariamente attuato facendo ricorso a mano d’opera non qualificata(98).

    Le argomentazioni del ministro erano fondare, ma i soldati non le conoscevano, anche perché non esisteva una propaganda che si preoccupasse di farle conoscere. Ma anche se questa propaganda fosse esistita i soldati avrebbero pur sempre con­tinuato a pensare che l’ingresso in fabbrica di tanti giovani costituiva una grossa «ingiustizia», se non altro perché gli operai industriali ricevevano un trattamento economico enor­memente superiore a quello dei combattenti(99).

    Le maestranze degli stabilimenti addetti alla produzione di guerra ricevevano le retribuzioni stabilite nei contratti dell’industria privata. Il gen. Dallolio – sottosegretario e poi ministro delle Armi e Munizioni – spiegò che era impossibile parificare le retribuzioni degli operai militarizzati a quelle dei combattenti, poiché sarebbe stato necessario assicurare anche ai primi l’alloggio e il vitto. Né, in ogni caso, egli avrebbe mai potuto ordinare di retribuire col solo stipendio militare quei direttori di officina o quei capitecnici che avevano conquistato una cospicua posizione nel mondo industriale(100). Un operaio metallurgico, a Torino, retribuito a cottimo, riceveva nel 1915 una paga media giornaliera di lire 7,60, ed il fante era facil­mente indotto a fare tristi confronti tra la condizione sua e quella degli imboscati. La paga giornaliera del fante era in­fatti di 50 centesimi compreso il soprassoldo di guerra, di cui al decreto 23 maggio 1915, n. 677. Tale decreto aveva stabili­to le indennità speciali «per le truppe in campagna», commisu­randole in cent. 40 per i caporali, gli appuntati, i soldati, gli allievi carabinieri ed i carabinieri aggiunti; in cent. 60 per i carabinieri; in lire 1 per i sergenti, 2 per i sergenti maggiori, 2,50 per i marescialli di alloggio. Per gli ufficiali, invece, le indennità speciali di guerra erano le seguenti (in lire del tempo):

     

     Ugo Ojetti, mentre era al Comando supremo, si interessò di sapere quanto guadagnavano i suoi superiori ed annotò nel diario: «Cadorna ha, credo, 4000 di stipendio: 200 ne tiene, il resto manda a casa»(102). I fanti si interessarono delle retribuzioni percepite dai commilitoni addetti alle altre armi ed ai servizi, in favore dei quali il decreto 23 maggio 1915 aveva stabilito indennità varie oltre al soprassoldo di 40 centesimi:

    «Il maniscalco — dicevano i fanti — non combatte, ma avrà l’indennità di ferratura, il motorista avrà l’indennità di motore, il telefonista addetto agli uffici avrà l’indennità di telefono, l’automobilista l’indennità di macchina; al combattente è riser­bato un trattamento unico ed inesorabile: cinquanta centesimi ed il pericolo della vita, giorno per giorno»(103).

    I congiunti dei richiamati alle armi, riconosciuti bisognosi da speciali commissioni comunali, ricevettero un sussidio gior­naliero nella misura di lire 0,60 per la moglie, e 0,30 per cia­scun figlio di età inferiore ai 12 anni. I figli dei soldati che avevano superato tale età potevano essere ammessi al lavoro anche senza il prescritto grado di istruzione, in deroga alle norme di legge sulla protezione dei lavoro del fanciullo. Tanto era bastato per escluderli senz’altro dal sussidio. Si potrà obiet­tare che nelle campagne il lavoro dei fanciulli era un feno­meno diffuso; che inoltre il giudizio delle commissioni inca­ricate di assegnare i sussidi si ispirava generalmente a criteri molto larghi, così che quasi tutte le famiglie dei contadini ri­chiamati potevano approfittarne; ed infine che i lavoratori agricoli erano abituati a percepire retribuzioni assai basse, tali da far si che i sussidi governativi costituissero un contributo apprezzabile per l’economia delle loro famiglie. È stato infatti calcolato che nel 1913-14 la retribuzione media annua per unità lavoratrice giungesse appena alle 440 lire nell’Italia

    centro-settentrionale e alle 360 in quella meridionale. Tuttavia – come scrisse il Serpieri – il concorso dato dai sussidi sta­tali per reintegrare i bilanci contadini, pur essendo rilevante, non bastò nella maggioranza dei casi a ristabilire l’antico equi­librio tra redditi e consumi. A maggior ragione, dunque, esso non bastò per placare il malumore dei fanti-contadini contro i ben più privilegiati «operai-imboscati»(104). Si pensi che nel 1917 i sussidi giornalieri della moglie del soldato furono au­mentati di 15 centesimi e quelli del figlio di 10 centesimi, mentre il costo della vita era cresciuto del 43 per cento. 

    In forma più o meno consapevole i fanti-contadini avver­tivano che, mentre toccava ad essi di soffrire e combattere, tutto il mondo dell’industria progrediva grazie alla guerra. Nell’agosto 1915 l’ing. Nicola Romeo riferiva ad Ojetti – uno dei suoi maggiori azionisti – che la loro fabbrica, la quale oltre alle automobili produceva anche proiettili e perforatrici, stava andando «a gonfie vele»(106). Bastava leggere i giornali per apprendere che le industrie concludevano ottimi affari: «La Stampa» di Torino, in un articolo del 13 novembre 1915  significativamente intitolato Lo Stato indifeso?, riprovava gli illeciti arricchimenti dei fornitori dello Stato e nel numero del 29 novembre chiedeva più rigorose tassazioni denunciando gli enormi profitti conseguiti dalla Fiat nel 1915, calcolati in­torno al 70 % del capitale. Alcuni industriali imputati di frode nelle forniture militari erano stati arrestati e «La Stampa» ne dava notizia stigmatizzando il fatto che i fornitori trovas­sero il modo di arricchirsi mentre la guerra rendeva povere le nazioni: a quei profittatori non importava che il soldato restasse scalzo sulle rocce o con l’abito lacero e insufficiente a ripararlo dal freddo. Essi avevano venduto materiale scadente a prezzi eccezionali, accrescendo mediante la frode il loro già lauto guadagno: «Alla gogna questi cattivi industriali, questi pessimi italiani»(107).

    84 A. BALDINI, Definizioni di gergo, in G. PREZZOLINI, Tutta la guerra, Antologia del popolo italiano, Firenze 1918, p. 275. L’on. E. Ciccotti definì imboscati «tutti coloro che, dovendo prestare un servizio militare, fanno in modo da renderlo più apparente che reale, più formale che effettivo », cfr. Atti Parlamentari, Camera, Discussioni, seduta del 21 marzo 1916, p. 9700. Sull’origine francese del termine «imboscato»cfr. A. NICEFORO, A proposito del libro di Albert Dauzat, «L’argot de la guerre », in $$ Rivista italiana di sociologia », luglio-dicembre 1918, pp. 371-74. In generale sul « gergo %% dei soldati italiani cfr. G. MELE, Gergo di guerra, Roma 1941 (con bibliografia); in vari numeri del­l’« Astico », il giornale di trincea diretto da P. Jahier, apparve un dizio­narietto di gergo (cfr. A. LANCELLOTTI,Giornalismo eroico, Roma 1924, pp. 88-89); ma utili informazioni su numerosi vocaboli possono essere ricavate dalle lettere e dai diari dei combattenti. Cfr. infatti A. OMoDEo, Lettere 1910-1946, Torino 1963, pp. 155, 179 e 247; M. MUCCINI, Ed ora, andiamo!, Milano 1939, p. 166, nonché B. MUSSOLINI, Il mio diario di guerra cit., pp. 35, 71, 74, 88 103. 
    85  G. PREZZOLINI Tutta la guerra cit., p. 274. 
    86 Cfr. Inchiesta Caporetto, p. 399 e A. MONTI, Combattenti e si­lurati e., p. 5. Cfr. inoltre la precedente nota 73.  
    87 Cfr. A. MARPICATI, La Proletaria cit., pp. 68-69.   

     
    88 Cfr. A. MoNTI, Dalle trincee alle retrovie, Bologna 1933, pp. 156-58, nonché R. GIULIANI, Gli arditi, Breve storia dei reparti d’assalto della terza armata, Milano 1919, p. 248.  
    89 Cfr. U. OJETTI, Lettere alla moglie cit., pp. 28, 38, 40 e 50.   

    90  
    Cfr. A. OMODEO, Momenti della vita di guerra cit., p. 320, e A. GEMELLI, Il nostro soldato cit., pp. 204-206. Nella versione pub­blicata nel 1917 da padre Gemelli, tuttavia, il primo verso era diffe­rente, e non conteneva alcuna allusione al Comando supremo.   

    91 Cfr. F. S. NITTI, Rivelazioni cit., p. 386; F. MARTINI, Diario cit. p. 707 (alla data del 28 maggio 1916). Nel 1914 Salandra aveva di­chiarato che in caso di guerra tutti e tre i suoi figliuoli sarebbero partiti per la prima linea. Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Discussioni, se­duta del aprile 1914, p. 2276.  
    92 Cfr. A. GEMELLI, ibid., p. 54.   

    93 
    Cfr. R.D. 12 ottobre 1915, n. 1510. Nel novembre 1916 l’im­posta non fu più calcolata in misura fissa, ma in percentuale (dall’uno al tre per cento). Cfr. R.D. 9 novembre 1916, n. 1525.   

    94 Cfr. G. PREZZOLINI, Caporetto cit., pp. 29-32. L’on. F. Cie­cotti presentò un progetto di legge contro l’imboscamento che all’art. 7 prevedeva un turno tra i periodi da trascorrere in trincea e in retrovia.Cfr. Atti parlamentari, Camera, Discussioni, seduta del 21 marzo 1916, p.9702.   

    95 Cfr: S. A. STOUFFER (e altri), Studies on Social Psychology in World War Il, Princeton, New Jersey 1949, voI. II, The American Soldier:    Combat and Its Aftermath, pp. 290 sgg.; 320 sgg.
    96 CAMERA DEI DEPUTATI, Discussioni, seduta del 20 marzo 1916, p. 9677. Il 30 dicembre 1915 Ferdinando Martini scrisse da Monsummano al presidente Salandra per rendergli noto il « malo ani­mo » dei mezzadri: « sia perché contrari, come sempre, alla guerra, sia perché veramente le braccia mancano, finalmente perché, com’io già sapevo, li irritano le molte concessioni di esonero degli operai non tutte, a dir vero, giustificate. » (G. B. GIFUNI, Lettere inedite di Mar­tini a Salandra, in « L’osservatore politico letterario », dicembre 1967, p. 24). 
     
    97 Ibid., seduta del 21 marzo 1916, p. 9700. I versi di una can­zone sugli imboscati dicevano: «La paura della guerra – Li ha improv­visati- Meccanici e fabbri – pur d’essere imboscati .. .» Cfr. A. MONTI,Dalle trincee alle retrovie cit., p. 156.   
    98 Cfr. Atti Parlamentari, Camera, Discussioni, seduta del 20 marzo 1916, p. 9681.  
    99 E’ sintomatico che il problema dell’imboscamento preoccupasse a distanza di anni Antonio Gramsci nei suoi scritti dal carcere. Cfr.  A. GRAMSCI, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno,Torino 1949, pp. 203-04. Da buon politico Gramsci esaminava la que­stione «spinosa» pensando non soltanto al passato, ma anche al futuro. Riconosceva che l’Italia possedeva un apparato industriale ristretto rispetto alle esigenze belliche, il che rendeva inevitabile la prevalenza dell’elemento contadino nell’esercito. Sarebbe stato dunque erroneo fare di questa necessità un elemento di agitazione demagogica e chiamare imboscati gli addetti all’industria di guerra, la cui opera risultava così indispensabile per la guerra stessa. Tuttavia Gramsci ammetteva che le proteste dei fanti-contadini avessero un parziale fondamento: parecchi tecnici di secondo grado erano davvero degli imboscati secondo Gramsci – poiché la riduzione al minimo delle operazioni di lavoro, determinata dal limitato numero degli oggetti fabbricati e dalla loro struttura elementare, aveva ridotto la funzione di quei tecnici da quella di maestri d’arte a quella di puri sorveglianti disciplinari e questo fatto aveva effettivamente dato la possibilità di imboscarsi a molti che con l’industria non avevano mai avuto a che fare; costoro erano i veri imboscati, dato che il loro posso poteva essere assegnato a operai an­ziani mentre non era il caso di definire tali i contadini entrati nelle fabbriche direttamente dalle campagne o comandati dall’autorità militare.  
    100 Cfr. le dichiarazioni del Dallolio in Inchiesta Caporeto, vol. II, pp. 40742.  
    101 Sulle paghe degli operai esonerati dal servizio militare cfr. quanto diremo alle pp. 359 sgg., nonché P. SPRIANO, Torino operaia nella grande guerra, (1914-1918), Torino 1960, p. 193. Il fante rice­veva in teoria una paga giornaliera di cent. 89, ma gli erano trattenuti cent. 38 per il vitto, cent. 14 per manutenzione e vestiario ed infine cent. 27 per il pane. Riceveva pertanto una paga effettiva (detta « paga alla mano ») di cent. 10, più 40 cent. di soprassoldo di guerra; cfr. Il libro dei soldato di fanteria, Piacenza 1881, p. 44. Il 7 marzo 1916 il gruppo parlamentare socialista presentò una mozione nella quale chiese al governo di aumentare «l’indennità giornaliera in modo proporzio­nale ai crescenti aggravi della vita delle famiglie operaie e contadine», ma il governo si oppose adducendo le critiche condizioni dell’erario. Sembra viceversa che gli stipendi degli ufficiali – da noi indicati alla pagina seguente – fossero piuttosto consistenti nei gradi superiori e medi, e in molti casi (specialmente quando si trattava di ufficiali giovani senza carico di famiglia) anche nei gradi inferiori.  
    102 U. OJETTI, Diario inedito di guerra, in «L’osservatore politico letterario», febbraio 1966, p. 30 (alla data deI 25 agosto 1916). In effetti il capo di stato maggiore, che aveva il grado di te­nente generale, riceveva mensilmente tra stipendio, indennità e so­prassoldo, circa 4000 lire al mese. Sulle retribuzioni nell’esercito cfr. O. MONACO, Le competenze dei militari (Raccolta delle disposizioni che ne stabiliscono il diritto), Roma 1918. Gli stipendi degli ufficiali furono aumentati con il D.L. 18 febbraio 1918, o. 107.  
    153 GASPAROTTO, Rapsodie, MIlano 1923, pp. 159-60.  
    104 Cfr. A. SERPIERI, La guerra e le classi rurali italiane cit.,pp. 16-19 e 122-25.  
    105 Per i sussidi cfr. R.D. 13 piaggio 1915, n. 620 e DL. 29 luglio 1917, n. 1199. Erano previsti sussidi anche per i genitori maggiori di anni 60 e per i fratelli minori e inabili. L’aumento percentuale del costo della vita è stato ricavato dal Sommario di statistiche storiche italiane, 1861.1955. pubblicato dall’ISTAT, Roma 1958, p. 172.  
    106 U. Ojetti, Lettere alla moglie cit., pp. 56 e 10102.
     

    da Piero Melograni, Storia politica della grande guerra, ed Universale Laterza, Bari 1977, vol primo

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