“IL MIO PAESE” di Michele Trotta

IL MIO PAESE

di

Michele Trotta

 

Nota del Dott. GIUSEPPE MATARAZZO::

Matera 15.2.2002

Caro Michele. Sono stato piacevolmente sorpreso dall’arrivo della corrispondenza odierna, sia per la tua attenta cortesia come insolito mittente e sia per il pregevole contenuto del plico postale, cioè “IL MIO PAESE”.

Ti ho ritrovato nel mio mondo familiare e con commozione ho rivisto idealmente tante persona care. Il tuo lavoro letterario lo giudico di grande interesse affettivo e di facile lettura, quasi una successione visiva di fotogrammi rievocativi di tempi lontani in cui si affondano le nostre radici. Il piacevole ricordo, secondo la moderna psicologia, aiuta a vivere e il tuo scritto è riuscito a dare nuova linfa alla memoria. Grazie.

Giuseppe Matarazzo

 


Un giorno lontano lasciai il mio paese. Con mia madre e mia sorella Franca raggiunsi mio padre, che lavorava in una famosa città del nord: Torino. Non fu facile, pensando a quanto avevo lasciato: la fidanzata, gli amici, le strade, le case e un piccolo campo di calcio. Questo ci serviva a dar sfogo alle nostre partite. Penso ai primi anni dopo la guerra, quando eravamo costretti, per giocare a costruirci una palla con stracci e carte, legati da cordicelle. Non c’erano giocattoli, appena la Befana ci portava un mandarino, un arancio, un po’ di fave e ceci arrostiti. C’era, con essi, un soldino, che conservavamo con cura. Eppure, tra gli stenti, cercavamo d’inventare tanti giochi. Era il nostro divertimento……. Molte volte con le scatole, che avevano contenuto il latte condensato, che gli Americani avevano inviato come aiuto alla popolazione, si costruivano piccole moto e giocattoli. Era un periodo che ricordo con nostalgia…… Un periodo bello….. E’ inutile nascondere, si viveva stentatamente, ma quel poco che si riusciva ad avere, era certamente apprezzato. Il mio pensiero va a quanti ragazzi, oggi giorno,  da piccoli, sono invasi da tanti giocattoli. Rimangono sempre più scontenti ed insoddisfatti, tanto che se avessero anche la luna si farebbero trascinare ugualmente dalla droga. Noi abbiamo avuto poco, quel poco ci ha soddisfatto, ci siamo divertiti, pensiamo a quel periodo come il più bello della nostra vita. Non sapevamo nemmeno dell’esistenza della droga……….ma nessuno di noi ne avrebbe fatto uso!

Con nostalgia, dopo tanti anni, decido di ritornare al mio paese. Il viaggio è lungo, guidando l’auto ogni tanto mi sento attanagliare le gambe. L’emozione fa brutti scherzi, ma era necessario farsi coraggio per raggiungere la meta. Apro il finestrino, un po’ d’aria fa bene…..

Imbocco all’imbrunire il viale di pini, che dalla stazione conduce a Montescaglioso. Ero stanco, in quel momento pensavo solo alle grandi curve per raggiungere la collina. I fari, nel girare, mandavano i fasci di luce al di sotto dei pini. Si vedevano alcune coppiette, sedute, che si erano allontanate dal paese. E pensare, ai miei tempi, non ti lasciavano mai uscire solo con la ragazza…….. Era il periodo di ” io, mammete e tu………..!” Come sono cambiati i tempi!

Finalmente incontro le prime case. Nel passato era tutto terreno, coltivato ad orto. Ora ci sono case nuove. Il paese si è ingrandito notevolmente. Ero tutto sudato dall’emozione. Bisognava continuare….. Stavo affrontando una delle strade d’ingresso, una delle principali…… Era ora di passeggio. Ragazzi e ragazze sfoggiavano i vestiti più belli, in una pittoresca sfilata. Qualche suono di claxon, ma non mi lasciavano passare. Erano quasi sordi, alle mie richieste. Che fatica! Finalmente mi trovai a destinazione, tra parenti ed amici, che ci abbracciavano. Con me, durante il viaggio, c’erano mia moglie, che avevo sposato parecchi anni prima (Era naturalmente la fidanzata che avevo lasciata al paese alla mia partenza), mio figlio Mimmo e mia madre.

Come al solito, mi alzai presto. Avevo ancora davanti agli occhi la strada, le piante, come qualcosa che si rincorrevano tra loro…… Una giornata bella, un cielo azzurro e splendido. Le case tipiche di colore bianco. Sentivo come tutto ruotasse intorno, come le case dovessero cadermi addosso. Una stradina, piccola.. piccola, passava appena  un’auto in senso unico. Abituato com’ero in una grande metropoli, dagli spazi enormi, dalle case scure. Tutto era luce, bagliore! Mi sarei presto abituato. In quell’anno Dio aveva portato con sé in paradiso mia nonna. Preso dal lavoro non mi fu consentito di partecipare alle esequie. Decisi di recarmi al cimitero. Percorsi il viale, ed all’opposto dell’entrata trovai il loculo, il primo in basso della fila. Mi chinai, accesi un lumino, dicendo delle preghiere. Nel girarmi vidi un muro con tanti loculi. Dalle foto riconobbi tanti amici, conoscenti, persone che speravo di trovare in paese. Non sapevo che ci avevano lasciati. Mi sentii mancare, un forte dolore al ventre……..

Strada facendo, mi ritornarono le forze…….. Il mio pensiero era fisso su gli amici che non c’erano più.

Mi accorgo, appena, di essere davanti alla casa in cui avevo abitato da piccolo.  Era un dovere salutare Betta, una vicina di casa, tutta pepe, e che ricordavo quando cantava: “Lo sai che i papaveri son alti, alti, alti, e tu sei piccolina……” Per lei i papaveri rappresentavano il Comunismo, mentre la Democrazia Cristiana era la paperetta…… Tutti la conoscevano come “rossa”, come filosovietica. La vedo mentre, sul prato di fronte, su un telone versava alcuni sacchi di spighe di grano duro per farle asciugare al sole. Dopo aver falciato il grano, molte erano le donne che si occupavano a raccogliere le spighe che cadevano per terra. “Ciao Betta, come stai?”. “Io bene… ma sei tu a dovermi raccontarmi tutto…… tu che vivi a Torino…..una grande città!” Nel mentre, arriva compare Peppino, un uomo serio, mesto, intelligente che le spara a bruciapelo: “Ora comare Betta, questo grano, come richiede il comunismo, deve essere diviso con me…….” “Io non te lo do. Ho la schiena tutta rotta a raccogliere le spighe per terra…….” “Vedi comara Betta, ho voluto metterti alla prova. Per essere comunisti bisogna dividere tutto e non fare come tanti “rossi” che questo che è mio resta mio e quello che è degli altri è anche mio. Ricordati, anche, che il comunismo è la ricchezza di pochi (classe dirigente) e la povertà di molti (popolo)……………..”

Le usanze del paese è che quasi tutti i “montesi” dopo il pranzo andavano a schiacciare un pisolino. Verso le ore 17, o uscivano per andare alle così dette “botteghe” per svolgere il proprio lavoro artigianale, o per fare visite ad amici, o i giovani per le loro passeggiate lungo il corso. Per la cena si pensava quando si tornava a casa, molte volte anche a mezza notte. Uscii di casa e preferii fare una bella passeggiata tra i giovani. Il corso era il medesimo che tanti anni or sono avevo lasciato. C’era qualcosa di diverso, passavo tra l’indifferenza di detti giovani, che erano cresciuti in altezza,  ben vestiti, a gara a chi sfoderasse il vestito migliore. Magari tra essi c’erano parenti che io ancora non conoscevo. Ai nostri tempi tutto era diverso, non era permesso uscire con un’amica e nemmeno con la propria fidanzata. La gente subito mormorava…….. Agli angoli della strada, nell’oscurità, i poveri ragazzi, sotto la pioggia, nel freddo, con l’ombrello in mano, non toglievano gli occhi dalla finestra della propria ragazza. Aspettavano un cenno di saluto, chiudendo le persiane e di nascosto dei propri genitori, per andare poi a dormire contenti. L’attesa era di ore e ore, tanto che al mattino si notavano numerose “cicche” di sigarette sul marciapiede, consumate durante l’attesa. Come sono cambiate le abitudini…! Dal rigore più assoluto, alla libertà eccessiva! Mi trovavo davanti alla chiesa di Sant’ Agostino. C’era tanta gente che entrava ed usciva. Incuriosito entrai. C’erano tanti quadri esposti nella parte anteriore alla chiesa. Mi accorsi che molti si erano dedicati alla pittura, quadri ben fatti, in verità. Avevano in comune l’Abbazia del paese, una ispirazione che aveva colpito parecchi pittori. Incontrai Pino, un vecchio amico, di due anni più giovane di me. Dopo averci salutati, fu ben lieto d’accompagnarmi. Parlammo del più e del meno, poi, ad un tratto puntò il dito verso un bar: ” Vedi, Michele……sulle sedie vicino a quel bar sono seduti diplomati e anche gente laureata. Quasi tutti sono in cerca di lavoro……. Ormai, tutti studiano e i posti di lavoro non ci sono. Anche ragazzi, che prima aiutavano i loro genitori nei campi, sono nelle medesime condizioni……ti danno un contributo purché tu non li coltivi …Come può un giovane affezionarsi ai terreni ed imparare a fare il contadino? E’ dalla terra che si ricavano le ricchezze………..” Ben presto si aggiunsero altri amici e trascurammo, rievocando la nostra fanciullezza di parlare dei problemi seri del paese. Guardai l’orologio erano le ore 22, mi ricordai che mi stava aspettando una mia pro cugina. La trovai seduta su una sedia. Molto anziana, quasi stentai a riconoscere la Mariannina, donna di temperamento e potenza, più volte assessore al Comune. La vecchiaia l’aveva resa più piccola, si intravedevano le ossa delle mani, la faccia con molte rughe Sentii la sua voce:”E’ stato un mio grande desiderio vederti. Ti ricordo quando eri piccolo, a mano a mano con la nonna. Scusami, vedo solo la tua ombra, sono affetta da glaucoma”. Le feci una carezza sulla faccia, quasi come un incoraggiamento a continuare il dialogo. Era stata eletta più volte nelle file del Partito Comunista, credeva che era l’unico modo per poter sollevare le sorti del popolo, dei più deboli…. Parlando con lei ho avuto l’impressione di una donna volenterosa di fare, ma mi sembrava una moderata…….. una persona che  rinnegava il passato e depressa da ciò che a lei non era stato permesso fare: ” Michele, devi capire, che nel partito ci sono tante persone che sono gelose di te, e, ogni cosa di bello che vorresti fare, sono gli stessi del tuo partito a impedirtelo, a mettere il bastone tra le ruote…… Nella mia posizione ho avuto tanti incontri con rappresentanti di altri partiti nella cordialità più assoluta, mai un litigio, mai una scorrettezza. Ma ho capito che i nemici sono proprio quelli che credevi amici!” Si sentirono i dodici tocchi del grande orologio in piazza, era ora di andare a dormire.

Mi alzai presto, con passi frettolosi, raggiunsi Piazza del Popolo. Il cielo azzurro faceva da sfondo al Monumento dei Caduti di tutti i tempi. Alcune aiuole attorno con erbetta e fiorellini, davano un aspetto piacevole. Non c’era gente. Presi un bicchiere, lo riempii d’acqua. Dal taschino tirai fuori una compressa, la ingoiai. Bisognava tener sotto controllo la pressione. Un’aquila dominava la colonna, che terminava con alcune lastre di marmo, con inciso i nomi di tutti i caduti in guerra. Mi sedetti su una panchina, ammiravo la bellezza del monumento. Tirai fuori dalla tasca un giornale sportivo e lo sguardo si posò sugli acquisti della Juventus, squadra del mio cuore. Ci radunavamo a casa mia, con degli amici, vicino ad una radiolina, ad ascoltare la voce di Nicolò Carosio. Ognuno di noi tifava per una squadra diversa. Il tifo era esagerato, tanto che nella vicinanza della radio c’erano due lucertole di vetro ed ognuno di noi, appena la propria squadra si trovasse in difficoltà prendeva una di esse e, in segno di porta fortuna, la posava sulla radio. Avevamo sete e Giuseppe portò delle bustine per fare le aranciate. Giuseppe da quel momento fu chiamato col soprannome “bustina”. Mi raggiunse mia moglie con la macchina fotografica. Era ora di visitare l’Abbazia di San Michele Arcangelo, l’attrattiva del paese….. Quanti ricordi…. Da un piccolo arco entrammo in un corridoio. Il cortile è composto da due chiostri, con dei giardinetti, ben tenuti e fioriti. Alcuni corridoi, insieme a numerose colonne completano l’opera. Si vede anche il campanile della chiesa Sant’Angelo. Ai lati dei corridoi numerose aule, che nel mio periodo erano utilizzate per la scuola elementare. Il Direttore era Don Liborio, un prete che si dedicava al mattino alla chiesa e al turno pomeridiano alla scuola. Nella stessa aula, al mattino, c’era il mio maestro: Don Pietro Lafratta.  I registri delle firme degli insegnanti si trovavano nella nostra aula, ragion per cui tutti gli insegnanti, prima di entrare in classe, erano costretti a passare da noi per firmare la presenza. Don Pietro era una persona anziana, un uomo piccolino, serio……..e molte volte bizzarro. “Favorisci qui” erano le sue parole quando un alunno era irrequieto. Con la mano sinistra quasi accarezzava la faccia destra del ragazzo, due pizzicotti per far presa, a protezione della mascella, e con la destra arrivava un macigno sulla faccia sinistra. Data la sua età, le condizioni di salute, gli insegnanti avevano preso il vizio di trattenersi, durante la firma, fino alle ore nove, era meglio chiacchierare che insegnare………. In fondo all’aula, due giovani insegnanti fidanzati trovavano il modo di giurarsi eterno amore! Don Pietro, non era un prete, escogitò un piano per far lavorare gli insegnanti. Chiamò Carlo, l’alunno più vicino all’ingresso, e gli disse: “Domani mattina, appena arrivano a firmare, vai nel corridoio, senza farti vedere, e entri gridando…..E’ arrivato l’Ispettore da Matera.” Al grido: ” E’ arrivato l’Ispettore…….” gli insegnanti, che stavano già prendendo posizione per le loro conversazioni, sparirono come fulmini. Fu l’ultimo giorno………….e Don Pietro era lieto di aver ottenuto ciò che voleva.

Superati un paio di gradini, ci trovammo nel giardinetto del primo chiostro. Aiuole ben tenute. Erbetta verde. Rampicanti che raggiungevano la finestra dell’unico piano. All’ingresso un pozzo antico. Ci venne voglia di scattare alcune fotografie, come ricordo. C’era un sole cocente, anche la temperatura era in salita. Mi tolsi la giacca. Afferrai mia moglie per la mano, e, insieme ci dirigemmo verso Porta Sant’Angelo. Scesi alcuni scalini, ci trovammo vicini ad un muretto. A sinistra e a destra c’erano due stradine, una portava verso le cantine, ove conservavano il vino i contadini, ed una al di sotto del “Pallone”, parte dell’Abbazia di San Michele Arcangelo. Ci siamo seduti sul muretto, al di sotto, nella parte esterna, c’era uno strapiombo. Si vedevano tutti i campi coltivati, in fondo un panorama di Matera e la tortuosa strada che collega il capoluogo di provincia al paese. Una strada che a tratti sparisce coperta da pini ed altre piante. Era il muretto, che mio nonno, seduti vicini al braciere, in una serata invernale, per riscaldarci, aveva fatto oggetto del suo racconto. Tutte le famiglie, nel periodo gelido, si riunivano la sera attorno al braciere, c’era il nonno, la nonna, il papà, la mamma e tutti ragazzi, componenti la famiglia. Molte volte c’era anche qualche vicino di casa. La famiglia, dopo i lavori quotidiani, si riuniva, era unita in un grande affetto. Ora, invece, ci sono le auto, che portano i giovani lontani dalla propria famiglia….. dal proprio affetto! Prima che fosse costruita la ferrovia, o meglio congiunto Matera a Montescaglioso, mediante corriere, per recarsi nel capoluogo occorreva avere un cavallo, un asino……. La difficoltà  per il recapito di posta era enorme. Un giovane chiamato Michele ‘a iatta, fungeva da fattorino, facendo la spole tra capoluogo e paese, a volte con cavallo, a volte addirittura a piedi. Il sopranome “‘a iatta” forse è derivato proprio perché il ragazzo scattava e aveva la stessa furbizia di un gatto. Proprio da quel muretto, molti ragazzi, sapendo l’orario del suo arrivo in paese, appena lo vedevano apparire da lontano, riprendevano il loro coro:

Michele ‘a iatta

d’ quattro sold

don Papilio

s’ tene ‘a soeurd………………

Don Papilio era un signorotto del paese che aveva come inserviente la sorella di Michele. Le cattive lingue del paese dovevano sempre parlare, ed insinuavano che la donna fosse diventata l’amante del signorotto….. In verità nessuno ha potuto dimostrarlo………….Come tanti altri paesi, il mio è un paese che mormora facilmente, vedere un ragazzo ed una ragazza che parlano, per la gente sono già fidanzati………… sono già sull’altare. Ma tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare……..

Il caldo era sempre insopportabile, il sole era a piombo su di noi, vidi alcune sedie vuote vicino ad un bar al fresco. Ci sedemmo. Mi si presentò Antonio tutto preoccupato. “Michele, tu che ti sei sempre occupato di imposte e tasse, mi daresti una mano……” Aveva con sé una cartella in cui veniva chiesto una penalità perché, pur avendo versato molto di più del dovuto, come acconto Irpef a maggio, non aveva versato una piccolezza a novembre, e quindi conguagliato col 740 a maggio. Nei tempi passati, quando non c’erano né calcolatrici, né computer;  le imposte, tasse venivano notificate dai comuni, dallo stato ai cittadini con tanto di cifra da pagare. Ora c’è l’anagrafe tributaria, ci sono tutti i mezzi per poterlo fare, perché il povero cittadino deve essere costretto a rivolgersi a un commercialista, costui sbaglia,  e il cittadino deve pagare della multe salate? Bisogna considerare che non tutti sono all’altezza di risolvere questi problemi, e l’obbligo di uno Stato sta appunto nel mettere il cittadino in condizioni di pagare, senza successivi traumi. “Antonio, mi dispiace, pur avendo pagato tutto, hai commesso un piccolo errore. Lo Stato non ti premia perché sei stato un onesto cittadino a pagar tutto, se tu sbagli ti fa pagare, ma trovami una leggina che impone allo stato di restituire entro un termine quando un contribuente ha versato in più. Ti pagano gli interessi, ma te li danno quando vogliono…. e dopo le proteste! Perciò è meglio pagare……”

Ti viene il sangue alla testa quando noti che i diritti sono solo a senso unico.

Ci alziamo, mentre gli operai avevano terminato gli impianti di luminaria lungo il corso. Molte lampadine bianche, alcune colorate, con grande arcate. Ci si preparava alla grande festa del Patrono del paese.

Nel pomeriggio mi recai ai Cappuccini. Presi una salita, con pavimento in pietra bianca. Col passare del tempo queste pietre col consumarsi erano diventate lucide e scivolose. Abituato sull’asfalto della città, l’appoggio dei piedi mi rese instabile. Raggiunsi la chiesetta, entrai emozionato. Ai miei tempi c’era Padre Vincenzo, il monaco che ho tanto apprezzato, e Padre Michele, che dava l’impressione di soffrire di malattia nervosa. C’era anche Fra Cirillo, un tipo un po’ strambo. A questo gruppo si era aggiunto Paoluccio, un bel ragazzo, molto bravo, che si dedicava con la creta a creare statuette del presepe. All’età di sette o otto anni, con alcuni amici ci recavamo in chiesa, dalla maestra di catechismo, Angelina, per la preparazione della prima comunione. Ci radunavamo in Via Metaponto, vicino ad una scala, a doppia rampa, che era un passaggio comunicante tra la via ed il Borgo. Da questa scala scendeva Lenuccia (cugina di mia moglie). Con Checchella (ragazza che ci lasciò per sempre all’età di dieci anni per meningite acuta) e Rocco (questi due ultimi erano sorella e fratello, figli della Betta, che già conosciamo), ci recavamo tutti i pomeriggi al catechismo. Arrivò il momento delle Prima comunione e la maestra ci chiese uno per  uno, se desideravamo prendere Gesù collettivamente, o fare una festa separata. Sentii da Lenuccia che nell’altro gruppo, con la maestra Nicoletta, c’era sua cugina che la comunione l’avrebbe fatta separatamente. Passarono giorni e una domenica in chiesa vidi il gruppo di Nicoletta. Una ragazzina aiutava la maestra, piccolina, dal volto bruno, che con le mani si aiutava a far ripetere le preghiere ad un gruppo di tanti bambini e bambine. Ero giunto lì, forse per curiosità, o perché attirato dal destino, in quanto proprio quella bambina sarebbe diventata mia moglie. Rimasi a guardare in silenzio per tanto tempo, fino a quando non se ne accorse Nicoletta, che mi prese per una mano e mi intimò a raggiungere il mio gruppo. Ero ancora piccolo, non potevo pensare a queste cose e così passarono anni……… Mia sorella Franca e la sorella di Anna (mia moglie)Rosaria andavano a scuola insieme. Non sapevo che Rosaria era sorella di Anna. Fu un caso che vedendo nelle mie mani una fotografia, che scattai ad Anna di nascosto, mi disse: “Ma questa è mia sorella…..!”. In verità, in quei giorni la seguivo sempre, cercai di farle capire quanto l’amassi. Forse era il destino, le cose si semplificarono notevolmente. Il nove giugno millenovecentosessantadue è stato il giorno delle nostre nozze. Rosaria con delle amiche addobbarono la chiesetta con tanti garofani bianchi. Giunsi sulle scale, accompagnato dalla mia madrina Luisa. Mio padre si trovava a Torino in ospedale, mia madre rimase anch’essa nella nostra città………. Non si poteva lasciare solo un ammalato in gravi condizioni….. La mancanza dei genitori, in effetti mi rattristò. Tagliai il nastro, ero considerato un forestiero, e insieme ad Anna, andammo davanti all’altare a giurarci eterno amore. Il giorno più bello della nostra vita, il giorno che coronava il nostro sogno d’amore.

Avevo passato parte della gioventù tra i muri della chiesetta, nel giardino….. Era la mia casa ed essa racchiudeva tanti ricordi belli…… Avrei voluto quasi rimanere inchiodato sulla sedia, ma dovevo vedere altro fino che giungesse la sera. Il Belvedere, era una strada, un viale con dei pini laterali, soffiava un venticello piacevole. Dalla punta, ove c’era una croce, si vedeva la città di Taranto, si sentiva aria di mare. Quante volte nelle passeggiate domenicali, a poca distanza seguivo la mia fidanzata, non ci si poteva andare insieme perché la gente del paese era pronta a mormorare. Meglio che i suoi genitori, almeno , per il momento non sapessero nulla, altrimenti non l’avrebbero fatta uscire con le amiche nei giorni a venire.

Immagino Padre Michele, che lungo il viale del Belvedere era solito fare la sua passeggiata quotidiana, sotto il sole cocente, protetto dal suo ombrello. Noi ragazzini, con l’intento di farlo contento, cantavamo dietro di lui le canzoncine che ci insegnavano a catechismo. Si voltava, con rabbia e ci scagliava addosso il suo ombrello, gridando: “Non si prende in giro il Signore……..” Era un monaco molto nervoso, non ho mai saputo cosa pensasse nella sua testa…… Sarebbe come condannare una persona che non ha commesso alcun reato: bambini desiderosi solo di canticchiare canzoni imparate in chiesa, senza nessuna intenzione di offendere nessuno!  Sono cose che sulla vita poi restano, sono cose che unite a tante altre, e, forse molto più gravi, ti allontanano dalla chiesa, anche se in te resta il grande desiderio di adorare Dio, perché la sua esistenza non può essere messa in discussione da nessuno. Allora cerchi di adoperarti a fare del bene, anche se trovi sempre dei contrasti nella vita. Anche Gesù li ha trovati…..! E come Lui bisogna andare avanti, senza curarsi dei nemici.

Arriva il giorno antecedente alla festa del Patrono del paese, si sentono gli squilli delle trombe, battiti di tamburi, sono le bande che percorrono le strade del paese, ad avvisare che sta per arrivare il grande giorno. E’ una mattinata piena di gente, tra essi molti della mia città. Torino è la città ove maggiormente i Montesi si sono trasferiti per cercare fortuna…. Anche perché coloro che sono arrivati per prima, hanno dato sempre una mano di aiuto ai nuovi. Come un pezzo di lievito che cresce sempre…….fra dieci o venti anni, sarà lo stesso lievito generato dal primo ad essere utile per il pane. E’ una catena umana, che non si ferma mai, e grazie all’animo buono del Montese! Vedo gli operai vicino ad una magnifica illuminazione che stanno provando il funzionamento perfetto dell’impianto. E’ una mattinata intensa, ove riesci a salutare tanti amici…..

Nel tardo pomeriggio è in programma la processione di S. Maria. Tanta gente, una lunghissima processione, che percorre a passi lenti le vie del paese. Dalle finestre, dai balconi vengono giù petali di fiori. Al passaggio della processione tutti escono in strada, si fanno il segno della croce al passaggio della Madonna. Alcuni uomini, che nonostante il caldo, portano ancora il cappello, abituati come sono, se lo tolgono in segno di rispetto. Dietro la statua alcuni vigili, rappresentanze del comune, la banda musicale e una immensa folla…….che ti toglie il respiro e ti impedisce di proseguire oltre. Senti da lontano le note della banda musicale…….. e vedi tanta tanta gente.

Alcuni colpi di fuochi artificiali, al mattino presto, scuotono le case.

Ti svegli presto, quasi spaventato. Poi ti ricordi che è il grande giorno. Una melodiosa canzonetta arriva dalla strada, ove sta passando la banda per il suo giro in paese. Mi risulta che il patrono del paese, nel passato sia stato S. Antonio, ma, successivamente, per le famose epidemie venne scelto S. Rocco.

La prima statua del Santo fu scolpita su una pietra, talmente pesante, che la forza umana non poté mai alzarla e né portarla in processione se non con l’aiuto dei buoi. Successivamente vennero costruite altre statue, ora ce ne sono due. Una per la processione e l’altra per il carro. Nel passato, questa festa, rappresentava, anche per i poveri, il consumo di carne a tavola, i ricchi la mangiavano quando volevano, i poveri quando potevano. Era il momento, in occasione del Santo, del vestito nuovo. Fin quando con l’emigrazioni americane e delle grandi città italiane, il paese poteva beneficiare di nuova linfa. Le pensioni sociali e quelle d’invalidità (anche se date a scopo di sussidio) aiutavano gli anziani a non pesare sui loro figli, ad avere una vita diversa, una vita quasi indipendente. La contentezza di recarsi all’ufficio postale a riscuotere, anche pochi soldi, per loro era una gioia. Una contentezza indescrivibile……….. Eppure era gente che dai loro sguardi, dalla faccia, si riscontrava, per l’invecchiamento precoce, molto di più dell’età che avevano. Le mani pieni di calli dimostravano i lavori duri che avevano fatto,  sacrifici enormi, per crescere tanti figli………..ma nessuno aveva mai pensato a loro. Quante volte, con l’arrivo della festa, prenotavano vestitini nuovi per i propri figli, era l’usanza del paese, e poi il raccolto del grano veniva distrutto da violenti temporali, e non c’erano soldi per pagarli?

La Chiesa madre, era chiusa. Notai tanto di cartello davanti alla porta: “SEDOTTA E ABBANDONATA”. Nell’ultimo terremoto diventò inagibile e nessuno più si era preoccupato delle sue riparazioni. Così mi recai alla chiesa di S. Angelo, ove in effetti una Signora Sindaco del paese di fronte alla chiesa stava deponendo una corona di alloro sulla tomba dei caduti. Presenziai in parte alla cerimonia. Una folla entrò in chiesa ed io con essi. Dopo un po’ il Sindaco chiamò uno per uno i Montesi venuti dagli Stati Uniti. Consegnò loro una targhetta a ricordo del paese. La venuta degli emigrati, per il paese è una ricchezza, perché ognuno di questi porta moneta, sviluppa il commercio…………. Come arrivano con i regali da dare ai parenti, così alla partenza riempiono la loro valigia per portare regali e ricordi dal paese ai parenti americani ed amici………

Cominciavano a preparare la statua per la processione. All’esterno una fila di uomini “fratelli” delle confraternita, vestiti di bianco, si distinguevano dal colore del mantello alla chiesa a cui appartenevano. Messi in fila, erano preceduti da una fanfara di cinque persone con fischietto e tamburi. Davanti alla statua il parroco, vigili, carabinieri e qualcuno con vassoio che raccoglieva le offerte. Dietro alla statua un palio portato da donne, che canticchiavano: ” W MARIA………” In prima fila seguiva il Sindaco ed altre autorità del paese. La banda che suonava e quindi tanta e tanta gente.

Per portare la statua amici si radunavano tra loro, formando tanti gruppi. Il gruppo che offriva di più alla chiesa di S. Rocco, aveva diritto a portare la statua sulle spalle. Le somme erano altissime,  si arrivava addirittura all’asta. Era come aver comperata la statua per il tempo della processione, persino si divertivano ad andare a passo lento per allungare i tempi. Il parroco di tanto in tanto, con uno spillino allungava la lista dei soldi, con nuove offerte ricevute. La processione attraversava moltissime strade del paese e generalmente non ritornava prima delle ore quattordici alla chiesa S. Angelo. Tra la gente c’erano anche i cavalli, ripuliti, gli zoccoli tinti di nero, con finimenti di gran lusso. Li portavano per abituarli a stare con la gente, sarebbero poi serviti in serata.

Davanti alla chiesa dei Cappuccini, un magnifico carro, era in allestimento. Dalla parte anteriore sporgevano angeli con le loro trombe. Il carro sembrava uscito dalla fabbrica. Colori vivaci, similmente ai quadri che generalmente venivano tinti da me. Una statua di San Rocco veniva posto sul carro. Una folla immensa si portava dalla piazza verso i Cappuccini. Molti cercavano di scattare fotografie, come ricordo. Finalmente arrivano i cavalli, e vengono, con delle corde, legati al carro. Ai lati due cavalli neri, al centro uno bianco, altri due cavalli a sinistra  e altri due a destra, legati ai cavalli neri, per dare loro più forza. Arrivano anche i cavalli che serviranno per i preti e monaci. Si fa quasi buio quando si avvia la sfilata dei cavalli. Sul primo cavallo siede il prete più giovane, e così, fino all’ultimo cavallo riservato al parroco o al vescovo. Anche il carro comincia a muoversi, con dei cavalli nervosi, e gli addetti al servizio mostrano tutta  la loro bravura a domare cavalli imbizzarriti.

Il carro attraversava le vie del paese, tra la folla, che si godeva un grandissimo spettacolo. Alla fine del giro, la statua di San Rocco, venne portata nella sua chiesa, mentre la banda musicale intonava le note. Tutta la piazza in festa, era un trionfo.

Mentre il carro, spoglio del suo santo, andava mestamente a riposarsi , la banda si preparava sull’orchestra per le sue opere. Il pubblico montese è molto esigente in fatto di musica. E’ un paese che ha avuto nel passato ed ha tuttora una magnifica banda musicale. Io ed Anna ci siamo seduti vicino all’orchestra, ci facciamo portare un gelato. Gustandolo, ascoltiamo l’opera di Verdi: Aida.

La festa termina alle ore quattro del mattino del giorno successivo, dopo i fuochi artificiali, spettacolari, a dir poco.

Ho dormito poche ore, l’abitudine non ti permette di alzarti tardi. Fa molto caldo. Esco e vedo vicino ad un bar seduti gli amici Pino e Franco, che mi invitano al loro tavolo. Pino mi dice:” Quando parti.?…..” ” Domani gli risposi.”  Franco mi dice:” Ho visto le tue proteste su Specchio dei Tempi della Stampa sul redditometro, riccometro…… “. “Vedi Franco, questi sono strumenti importati dall’Est. Dovrebbero essere in favore dei più deboli, mentre il Redditometro come ho dimostrato matematicamente su La stampa, favorisce l’evasione dei ricchi e torchia i poveri. E’ un metodo che non lascia scampo a chi non ha nulla e non può dimostrare come fa a vivere, anche se mangia pane e cipolla. Chi non ha un certo reddito, gonfiato dal Redditometro per la verità e non reale, che garantisca la sopravvivenza, viene sottoposto, appunto a torture fiscali. Un mezzo che dovrebbe sparire……  Non si applica ai ricchi, coloro che più facilmente evadono e non serve per i poveri……coloro che pagano tutto per paura di essere scoperti! Il Riccometro già si sa, che è un mezzo solo per i poveri. Sono questi ultimi a chiedere contributi allo stato, medicine gratis o altro, sono questi ad usarlo. I ricchi non chiedono allo stato, hanno i loro soldi sufficienti a pagarsi tutto ciò che vogliono. Due famiglie Rossi e Bianchi, entrambe composte da quattro persone (due bambini), pagano lo stesso affitto. Lavorano marito e moglie in entrambe le famiglie, con la differenza che la famiglia Rossi guadagna di più.  I Rossi si permettono le ferie alle Maldive, ragion per cui in banca hanno meno soldi. Al contrario, l’altra famiglia non va in ferie, pensa al risparmio. Proprio come la cicala e la formica. I signori Rossi, per il riccometro, non pagano per mandare all’asilo il proprio figlio mentre i signori Bianchi pagano retta intera per mandare all’asilo la figlioletta. In altri termini vengono premiati gli scialacquatori…..Non c’è giustizia……”

Pino mi chiede: “Qual’è il tuo pensiero politico?”- ” Io da piccolo sono stato sempre tra monaci e preti. Sono un moderato. Naturalmente i primi elementi politici li ho imparati da Don Sturzo. Apprezzo molto De Gasperi e La Pira, non per niente sono stati oggetti di beatificazione. Sono dalla parte dei più deboli e dei più poveri, attenzione parlo di poveri e non scialacquatori. Vedo in Italia troppi deputati e senatori, troppi partiti politici….. Per me andrebbe bene un sistema americano, due, massimo tre partiti. Chi vince comanda, l’opposizione deve essere un propulsore all’approvazione di leggi utili al popolo e non un distruttore. Come può un cittadino farsi un’idea di una coalizione, se ha fatto bene o male, se non la si lasci governare? Il cittadino potrebbe trovarsi come in una torre di Babele, non capirci più nulla: mandare al diavolo tutti i partiti.  In democrazia bisogna rispettare la volontà del popolo e di chi vince, non rispettando questi ultimi significa calpestare la volontà popolare, significa essere un dittatore! Prima di andare alle urne, tutti parlano a favore della gente, tutti vogliono fare…… ma dovrebbe essere anche l’opposizione, ed è grave quando non lo fa, a dare una mano perché si operi per il bene comune. Per costruire bastano poche parole, mettere da parte interessi di partito, prima di tutto è il popolo a cui pensare. Io toglierei anche eccessivi stipendi a senatori e deputati, darei loro ciò che guadagnano effettivamente per il proprio lavoro che svolgono nella vita. Avremmo poche persone, volontari, che si dedicherebbero certamente al bene della nazione……….In sostanza un incarico ad honorem….”

Stavo preparando la mia auto. Mio suocero mi aiutava a sistemare la valigia. Parenti ed amici arrivavano per salutarci. Ancora era tutto buio, fra non molto sarebbe giunta la luce del giorno. Dopo che Anna, Mimmo (mio figlio) e mia madre presero posto nell’auto, salutai mia suocera. Mio suocero era scomparso, non riuscivo a vederlo. Misi in moto l’auto, con la mano in segno di saluto, accelerai. A qualche centinaio di metri vidi mio suocero in mezzo alla strada, facendo segno di fermarci. Aveva voluto guadagnare qualche minuto al nostro distacco. Accostai al marciapiede, mi fermai. Il tempo di salutarci e riprendere. Guardai nello specchietto retrovisore, vidi mio suocero in mezzo alla strada col braccio alzato col cappello nella mano in segno di saluto………..

 

micheletrotta3@libero.it


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