I tumulti del ’98

 

Ecco in sintesi una ricostruzione della sommossa di Montescaglioso del  10 gennaio 1898 così come si ricava dai giornali che ne parlarono e con qualche considerazione di carattere generale sui luoghi, i tempi e gli uomini che vi presero parte o ne furono coinvolti.

I. Ma prima di inoltrarci  nella sua narrazione, va detto che poche volte come in questo caso sarà dato di vedere una simile sintonia fra vicende locali e situazione nazionale e internazionale. La rivolta di Montescaglioso infatti non sarà che un debole preannuncio di quello che accadrà poi su scala nazionale a distanza di qualche mese. E ciò a sua volta apparirà, nelle sue cause strutturali, un’inevitabile conseguenza degli scarsi raccolti che l’anno prima si erano avuti quasi in tutto il mondo.  Nel 1897, infatti, la produzione di grano in Europa era stata di  quattrocento milioni di ettolitri contro i 520 milioni dell’anno precedente, mentre quella delle Americhe -abbondante negli Usa e in  Canada, molto scarsa in Argentina – era scesa a 270 milioni di ettolitri contro i 305 dell’anno passato. L’effetto farfalla, o, meglio, lo tsunami, colpì particolarmente la Russia e l’India, due società rimaste fondamentalmente medioevali. Per quanto riguardava invece i paesi occidentali,  si prevedeva che sarebbe stata l’Italia Meridionale a soffrirne di più [1].

In realtà lo spettro della carestia  che il vecchio mondo sembrava aver dimenticato da cinque – sei generazioni farà la sua ricomparsa in varie aree provocando turbolenze di mercato e agitazioni che fecero temere che profondi sommovimenti potessero verificarsi perfino nel cuore della più raffinata civiltà europea: a Parigi dove il rincaro del prezzo del pane  sembrava non doversi più fermare [2]. Stando così le cose, La Stampa, commentando le rivolte che erano imperversate quell’anno, e paventandone altre,  scriveva:

Una carestia granaria, voi lo sapete, è sempre stata la più formidabile leva di mutamenti  ed il più terribile ariete di distruzioni nella storia sociale: due annate di cattivi  raccolti agirono più, sulla fine del secolo scorso, a mutare, sia in bene che in male , la faccia del mondo , che una schiera di filosofi ed un esercito di politicanti. [3]

A considerare le cose con lo stesso realismo mostrato nel passaggio di sopra dal giornale torinese, si potrebbe addirittura dire che, a conti fatti, ciò che accadde in Italia nel 1898 – comprese le cannonate fatte sparare da Bava Beccaris sulla folla milanese l’otto maggio che provocarono fra i 100 e i 300 morti – fu poca cosa rispetto a ciò che sarebbe potuto accadere.

In questa cornice d’insieme, vale a dire all’interno del sistema-mondo,  vanno quindi visti i fatti di Montescaglioso  del 10 gennaio. Fatti dei quali indiscussa protagonista fu una massa di popolo che la cattiva annata dell’anno precedente, tre tomoli di grano per ogni tomolo seminato, aveva precipitato dalla povertà alla miseria. E con la fame era arrivata per un migliaio di famiglie anche l’umiliazione di vedersi entrare in casa l’ufficiale giudiziario per sottoporre a sequestro i pochi beni rimasti. Per altre trecento famiglie la stessa mazzata arriverà qualche mese più tardi, durante le feste natalizie[4]. Su una popolazione di settemila abitanti ben pochi furono i montesi che passarono serenamente il Natale del 1897.

Stomaci vuoti, debiti e tasse da pagare, umiliazioni, rabbia e convinzione di essere vittime di ingiustizie: ce n’erano di motivi per protestare e cacciare dal municipio il sindaco e la sua cricca, fra cui l’appaltatore delle imposte, ritenuto un suo socio occulto.

Questo pensavano i contadini e a dare loro ragione c’era anche l’avvocato, il medico, il notaio, il farmacista del partito contrario all’amministrazione.  Partito amministrativo s’intende, poiché i “partiti politici” erano ancora di là da venire per cui quando c’era da eleggere  il deputato, anche quando c’era uno sfidante,  era assicurata pressoché l’unanimità a favore di quello uscente. Così era stato l’anno prima nel collegio di Matera dove, a dispetto della stessa Matera, era stato eletto per la quinta volta deputato Michele Torraca, giurista e  pubblicista di Pietrapertosa al quale dal nulla il banchiere Gioacchino Andretta aveva creato dieci anni prima una solida base elettorale ricevendone in cambio appoggi per le spregiudicate operazioni finanziarie che due anni dopo lo vedranno protagonista di un fallimento milionario (dodici milioni) che con il suo effetto domino  travolgerà quasi tutte -ed erano, incredibilmente,  le più numerose d’Italia non solo in rapporto alla popolazione, ma in cifra assoluta  – le piccole banche locali[5]. Perché questo va detto: per molto tempo in questa regione si sono usati i sistemi della più avanzata e spregiudicata modernità per mantenerla immobile.    

 

Elezioni del marzo 1897 nel Collegio di Matera[6]

sezioni

iscritti

votanti

Voti ottenuti dai candidati

Torraca

Giudicepietro

irsina

243

593

186

267

358

220

363

212

206

492

149

218

303

181

303

168

203

70

130

208

301

176

246

167

2

301

15

10

1

3

54

1

Matera

Montalbano

Montescaglioso

Miglionico

Bernalda

Pisticci

Pomarico

totale

2442

2020

1501

387

Voti contestati a Torraca 122

 

II. Alle cinque del mattino circa 600 contadini interrompono la linea del telegrafo e bloccano le uscite dal paese. Verso le nove marciano sul palazzo municipale – che si trova nei locali dell’ex abbazia benedettina e, gridando slogan  come “Viva il Re”, “Vogliamo lavoro”, “Abbasso il Municipio”, lo invadono.

Fa loro fronte un notevole drappello di armati – circa venti elementi fra carabinieri e guardie campestri, municipali e daziarie – che impedisce la distruzione dell’archivio. Tuttavia alcuni rivoltosi, vedendo la forza pubblica così impegnata, scassinano la porta della vicina pretura, portano via la documentazione  che vi è depositata e la bruciano.

Verso mezzogiorno la situazione torna sotto controllo da parte della forza pubblica locale che potrà eseguire subito una sessantina di arresti mentre da Matera stanno arrivando rinforzi, da Potenza  parte il maggiore dei carabinieri e da Bari una compagnia di soldati. 

Il primo giornale che dà notizia dell’accaduto (Il Lucano dell’11-12 gennaio), lo motiva con le numerose contravvenzioni forestali e con la nuova tassa bestiame disposta dagli amministratori. Nel numero successivo però, lo stesso foglio, riportando le dichiarazioni fatte da alcuni arrestati, fornisce un quadro più dettagliato degli avvenimenti e li spiega con l’intenzione di far cadere l’amministrazione in carica. L’azione era stata studiata e preparata poiché il movimento era cominciato la sera del 9 gennaio, quando la folla s’era raccolta davanti alla casa del capo dell’opposizione per decidere il da farsi. Nella nottata si era poi avuto un insolito “movimento di persone per le vie e  i larghi; si era bussò a quasi tutte le porte dei contadini ai quali fu imposto di non recarsi nel mattino al lavoro, facendo loro promesse perché tutti avessero preso parte alla sommossa…[7]“.

Gli scioperanti non hanno armi, ma qualcuno gira con il bastone da passeggio e, dopo essersi raccolti in gran numero, vanno verso il municipio inneggiando al re e alla regina e imprecando contro l’amministrazione.

III. Il sindaco è Giovanni Andriulli che qualche giornale presenta come un despota orientale – per Il Lucano è il magiaro ungherese -, qualche altro come un brav’uomo plagiato dall’avvocato Domenico Venezia.  É questi un personaggio da commedia ed un’eminenza grigia che si spartisce fra Roma, il consiglio provinciale di Potenza e Montescaglioso – dove nel corso del tempo occupa la carica di pretore, assessore, sindaco – delle cui vicende aspira ad essere arbitro e moderatore. Lo diventerà, anche grazie ai legami di parentela che gli verranno maritando le figlie a tre campioni della politica montese come Giovanni Battista Andriulli, Biagio Nicotra (un siciliano docente universitario di diritto del lavoro a Napoli) e Francesco D’Alessio, ma si porterà la discordia in famiglia. I primi due infatti fanno lega contro il giovane e ambiziosissimo D’Alessio per cui, così schierati in fazioni opposte, daranno vita a una – diciamo così –  quasi decennale guerra dei cognati che avrà fine nella primavera del 1921 con la resa a discrezione e l’adesione alle posizioni del D’Alessio da parte dei primi due .

Ma torniamo al fatto. In questa circostanza Andriulli agisce da persona piuttosto determinata nel difendere la propria posizione. Infatti appena sa della dimostrazione si reca in municipio e fa sapere ai manifestanti che riceverà una loro rappresentanza per sapere cosa vogliono. A dire del cronista i delegati chiedono lavoro e un abbassamento della gabella sul pane. Pretendono anche la bandiera del comune, ma ottenutola la fanno a pezzi. Intanto la folla, che stazionava dietro il portone di ingresso dell’abbazia, irrompe nei corridoi incurante degli agenti che le si oppongono con le armi in pugno, guadagna le scale e raggiunge i delegati nel gabinetto del sindaco. Il quale, visto come si mettono le cose, impugna una rivoltella ed esce dall’ufficio per  fronteggiare i manifestanti  e far loro capire che non è disposto a subire violenze. Dalla folla intanto non si fa che gridargli di dimettersi: “Inutili le parole di pace, di calma, gli squilli di tromba, ecc. La folla, avuto il sopravvento…, invase gli uffici comunali per cercare un’altra bandiera: la bandiera di cinquemila lire (come essa diceva)”[8].

Per smentire la ricostruzione qui accennata, il sindaco scriverà a Il Lucano che le ragioni addotte a spiegazione della rivolta “non sono vere, perché neppure i dimostranti hanno saputo indicarle. Le numerose contravvenzioni forestali non esistono e la tassa bestiame c’entra come il cavolo a merenda”. Le cause vere e segrete della sommossa, aggiunge, saranno chiarite dalle autorità[9].

Per il corrispondente di un altro giornale, La Basilicata, non ci sono invece dubbi sul fatto che la popolazione sia insorta a causa degli “arbitri medioevali e il fiscalismo da corsari del municipio”. Si illudano pure le autorità locali di aver ristabilito l’ordine e la tranquillità con i 105 arresti fino ad allora fatti. Il fenomeno delle rivolte si manifesta infatti con sempre più frequenza e i giornali danno spesso notizie di nuovi tormenti inflitte alle popolazioni poiché malgrado l’apparente calma in cui vivono, stanche ed abbattute,  fra loro si sprigionano ogni tanto lampi e tuoni. “Le autorità si lusingano di poter smorzare il fuoco chiudendo con una manata di fango qualche crepaccio rosseggiante, e, ingenue, non si accorgono che sotto ai piedi si aduna e freme terribile e minacciosa la lava di un immenso vulcano”. Se una provincia così docile, tollerante e paziente come quella lucana “insorge a tumulto ed incendia le case comunali, ciò vuol dire che vi sono cause troppo gravi e sciaguratamente permanenti. Bisogna avere il coraggio di studiarle queste cause con intelletto d’amore, con sentimento di carità fraterna; e la calma conviene farla rientrare negli animi meno con le baionette dei soldati che con la giustizia nelle amministrazioni. I veri colpevoli non stanno tra la folla che tumultua …” [10].

IV. Un altro articolo, nello stesso numero di giornale, dà, invece, risalto al fatto che i dimostranti, prima di marciare sul comune, fossero passati dalla casa di Rocco Luigi Nobile, notaio,  chiedendogli di mettersi alla loro testa “perché doveva essere il sindaco”, ma questi aveva rifiutato. La folla si era diretta allora con gli stessi propositi  a casa di Carlo D’Alessio e, non avendolo trovato, era tornata dal Locantore a ripetere la richiesta. Questi allora chiede che “fosse andata a rilevare dal Municipio la bandiera per potersi mettere a capo della dimostrazione”. Non si capisce se è questo solo un pretesto per trarsi d’impaccio, oppure un tentativo che, se fosse riuscito – se cioè il sindaco in carica non si fosse opposto -, avrebbe contribuire a dare una qualche formale legittimità a quella scelta a furor di popolo di un nuovo capo dell’amministrazione. Ad ogni modo il Nobile, ex sindaco ed ex consigliere provinciale, è tutt’altro che uno sprovveduto e perciò mentre, a tutti gli effetti, é colui che ha invitato, se non istigato, la folla a compiere un’azione dal forte valore simbolico – impadronirsi della bandiera del comune – che, come ben sa, non può farsi senza infrangere la legalità; mentre fa tutto questo, scrive al sindaco il seguente biglietto:

Il sottoscritto, minacciato da una turba di popolo furente, invoca l’assistenza dell’Autorità di pubblica sicurezza per essere tutelato nella persona e negli averi e si protesta di ogni danno che possa venirgli[11].

Questo non basterà ad evitargli l’arresto e la denunzia, insieme a due figli, di istigazione. Ma in carcere resterà appena dieci giorni e dall’accusa di istigazione sarà assolto per mancanza di prove durante il processo. Sarà lo stesso sindaco a scagionarlo.

Probabilmente lo farà per solidarietà di classe, forse per opportunità. Nell’immediato il Nobile serviva al suo gioco, in futuro poteva convenirgli averlo amico. L’avversario di ieri avrebbe potuto diventare – e diventerà – l’alleato di domani.

In cosa consisteva intanto l’opportunità? In questo: nel fatto che il Nobile con la sua richiesta di soccorso dava della folla lo stesso giudizio dell’Andriulli e cioè che si trattasse di una massa di volgari delinquenti. In quel biglietto, dirà infatti per smentire i giornali che hanno spiegato la sommossa con gli arbitri e il fiscalismo dell’amministrazione, “gli insorti … sono bollati siccome ladri e assassini a segno che il Nobile si protesta d’ogni danno”. Per lui “gli averi e la persona del Sig. Rocco Luigi Nobile” erano veramente stati messi in serio pericolo dalla folla. Una folla – ed è questo che gli preme – la cui consistenza numerica è da ridimensionare. A suo infatti dire i manifestanti non erano inizialmente che un centinaia ai quali strada facendo se ne aggiunsero altrettanti per cui, all’arrivo sotto il municipio, non erano più di duecento persone, la metà dei quali “monelli, curiosi ed illusi”.

Si tratta evidentemente di una valutazione assai diversa da quella data dal cronista per il quale già le sole squadre che bloccavano le vie d’uscita dal paese all’alba del 10 gennaio contavano circa seicento persone.

Ma ascoltiamo ancora Andriulli che – tiene a far sapere – è sindaco da ventidue anni ed ha amministrato sempre con gli stessi collaboratori  guadagnandosi lodi ed onorificenze dalle autorità tutorie per le quali “Montescaglioso fu ed è additata come modello di correttezza e probità”. Per lui “gli arbitri medioevali e il fiscalismo da corsari del Municipio” esistono solo nella fantasia di N, l’anonimo corrispondente de La Basilicata, che li ha denunziati:

No, …per buona ventura , la popolazione di Montescaglioso rimase perfettamente estranea al malefizio, alla sceleragine del 10 gennaio. La popolazione si addimostrò col contegno e con la tranquillità sua di stringersi tutta attorno ai suoi amministratori, che nulla hanno o ebbero a rimproverarsi  e che al popolo, al vero popolo intesero e intenderanno mai sempre [sic] di giovare…

Ma che la bordaglia dei pregiudicati, il fecciume degli abietti – come e da chi prezzolato e reclutato scoprirà la giustizia-  si ammutinasse il 10 gennaio, è provato oltre che dall’incendio, dal saccheggio e dalla rapina, da una lettera che mi trasmetteva il signor Rocco Luigi Nobile…  

E in conclusione: Confidiamo nella giustizia,la quale non dovrà soltanto punire, ma dovrà far luce. Quella bordaglia, capitanata ed aizzata da un preteso elettore, intimava le dimissioni del Sindaco: perché? a profitto di chi?

Nessuno espresse un bisogno suo o degli altri; nessuno si dolse di torti o soprusi; tutti miravano ad abbattere il Municipio! Indi, fin il Municipio fu perduto di vista per incendiare e saccheggiare!

Dunque: luce, luce, luce! [12]

Del numero dei dimostranti non si parla neppure in un’ altra corrispondenza pubblicata nella colonna a fianco della lettera del sindaco da un altro anonimo che si sigla Omega.

Tutto però lascia supporre che fossero ben più di duecento. Rettificando quanto scritto in precedenza da lui stesso, dichiara Omega questi, i fatti di Montescaglioso sono stati molto più gravi di quanto si credesse. La pretura fu completamente devastata e tutte le carte che vi si trovavano furono distrutte; fu risparmiata solo la sala di udienza dove un contadino, sedendosi sullo scranno del pretore, proclamò che quel giorno era lui il giudice. L’ufficio del registro si salvò perché il ricevitore vi si barricò dentro e quello del sindaco non fu distrutto per la resistenza opposta dalle forze dell’ordine  e dallo stesso sindaco. Questi, che poi ne uscì per calmare la folla “promettendo e facendo tutte le concessioni, passò grave pericolo di vita” poiché uno dei rivoltosi lo aggredì, ma altri lo bloccarono. Fortunatamente, altrimenti “sarebbe stato l’inizio di un massacro di cui le conseguenze sarebbero state gravissime”. Intanto dell’accaduto si era occupato anche il Corriere della Sera esagerando la portata dei fatti e accennando a duecento arresti e all’anticipato collocamento a riposo del sottoprefetto di Matera, Cecchini, che non avrebbe saputo prevenirli ed impedirli. Per il cronista questi è il capro espiatorio di colpe non sue: “Se le autorità locali furono colte all’improvviso [sic] perché si vuole attribuirne la colpa al Sottoprefetto?”. C’è invece compiacimento per la liberazione del notaio Nobile e figli rilasciati, dopo undici giorni di carcere, insieme ad un’altra ventina di persone per mancanza di indizi. Così ha deciso la camera di consiglio che nello stesso tempo conferma l’arresto di  72 persone e avvia un supplemento d’indagine per altri 9 dei 105 incarcerati all’indomani dei fatti[13].

All’azione repressiva si affiancò tuttavia un tentativo di pacificazione sociale che si concretizzò in una colletta a favore delle famiglie dei carcerati. Ma per gli oppositori quell’iniziativa fu solo “un’ironia ed una lustra”. Fu detto infatti che i soccorsi non avrebbero avuto carattere ufficiale poichè a fornirli erano stati cittadini  di ogni partito ed ordine sociale, ma a distribuire i buoni era poi stato il maestro Beniamino, un fedelissimo dell’amministrazione in carica, e a gestire la distribuzione della minestra aveva pensato l’imprenditore edile (Nicola Andrisani?) socio segreto del sindaco. “A quel soccorso  – scrive un certo Pro-Ultor – quante furono ammesse delle famiglie di quei malfattori del 10 gennaio? E pure, a quelle famiglie derelitte, prima che ad altri, sarebbesi dovuto avere particolare riguardo in questa condizione di tempo[14]“.

Dopo tutto quello che si è detto sappiamo, grosso modo, cosa accadde, proviamo adesso a capire chi e perché lo aveva provocato.

Il sindaco Andriulli ha detto che nessuno, durante la trattativa fra lui e i manifestanti, espresse bisogni propri o altrui né si lamentò di ingiustizie o prepotenze subite. Quindi all’origine della sommossa non ci sarebbero state ragioni economiche e neppure offese e prevaricazioni a danno di alcuno. Lo stesso sindaco, come si è già detto, rendendosi garante dell’estraneità ai fatti del capo fazione avversario Nobile, esclude che i torbidi siano frutto di una sua congiura.

Per lui è tuttavia indubbio che qualcuno ha tramato contro l’amministrazione e si augura che la giustizia stabilisca a profitto di chi il “preteso elettore” avesse capeggiato ed istigato la gentaglia (bordaglia) ad assalire il municipio.

Ma il suo auspicio non si realizzerà.

Il 21 marzo comincia il processo a carico degli ottantacinque imputati, un processo che andrà per le spicce,   tanto che nella prima giornata in meno di cinque ore si esauriscono gli interrogatori di tutti gli imputati e in due settimane si arriva alla sentenza. Sarebbe interessante studiarne gli atti per capire il motivo di tanta fretta e severità. In quei giorni i giornali parlavano diffusamente dei tumulti in corso in varie altre zone d’Italia, specialmente in Sicilia dove le manifestazioni –  per lo più organizzate e capeggiate dalle donne – cominciavano con l’occupazione dei campanili delle chiese e lo scampanio a distesa per chiamare a raccolta la popolazione ormai ridotta, a causa dell’alto costo del pane e della farina, a cibarsi solo di erbe di campo e lumache[15]. Probabilmente questi fatti non favorirono gli insorti di Montescaglioso che furono giudicati in un clima  di stato d’assedio.

Il tribunale è presidiato da una sessantina di armati, fra carabinieri e soldati di linea e una gran folla assiste al dibattimento presieduto dal cavalier Domenico Iorio. L’accusa è rappresentata dal procuratore Marco Mariani, la difesa da tre avvocati materani di non eccelsa fama. Nei tre giorni successivi, smentendo tutte le previsioni, sono ascoltati i quarantanove testimoni dell’accusa, il 30 si ha la requisitoria del pubblico ministero, nei due giorni a seguire le arringhe difensive e il 2 aprile si arriva alla lettura della sentenza. Il verdetto fu molto diverso da quello che molti si aspettavano. “Si attendeva e da tutte le parti, e si poteva fare, – commenterà La Riscossa – una sentenza che mirasse alla pacificazione degli animi a Montescaglioso, concedendo al prestigio (!) di quelle autorità la soddisfazione che potevano attendersi, ed indulgendo in tutte le maniere con una turba di affamati e di abbrutiti sotto la sferza delle più gravi ed ininterrotte angarie”  ed arriverà invece la condanna di settantacinque imputati a circa un secolo di galera e a pesanti multe in denaro con una così sottile graduazione di pene da far pensare a una ben precisa valutazione della posizione di ognuno[16]. Su un solo aspetto i giudici daranno prova di assoluta monotonia: i condannati sono solo e tutti popolani. Nessuno di loro è di condizione sociale tale da poter aspirare a guidare il comune, nessuno di loro ha mai preso parte in alcun modo alla sua vita amministrativa prima di questo fatto né lo farà dopo. Ciò che invece faranno in molti, dopo essere stati liberati, sarà acquistare un biglietto d’imbarco per una qualche America.

 

Fine prima parte


[1] Lo spettro della carestia, La Stampa del 15 novembre 1897.

[2] La questione del pane in Francia, La Stampa del 25 agosto 1987.

[3] Carestia e speculazione, La Stampa del 6 settembre 1897.

[4] Cfr. La Basilicata del 21 aprile 1898.

[5] Una crisi bancaria nella Basilicata. Fallimento di 12 milioni, in La Gazzetta Piemontese del 25-26 maggio 1886.

[6] Il Lucano del 18-19 marzo 1897

[7] Sommossa a Montescaglioso, Il Lucano dell’11 gennaio 1898.

[8] La sommossa a Montescaglioso, Il Lucano del 20 gennaio 1898

[9] I disordini di Montescaglioso, ib

[10] L’ordine regna a Varsavia, La Basilicata del 20 gennaio 1898.

[11] La Basilicata del 24 febbraio 1898.

[12] Audiatur et altera pars, lettera del sindaco Andriulli al settimanale La Basilicata del 27 gennaio 1898.

[13] Echi lucani, I La Basilicata del 27 gennaio 1898.

[14] Montescaglioso, La Basilicata del 21 aprile 1898.

[15] L’agitazione popolare in Sicilia, La Stampa del 29 marzo 1898.

[16] La causa della sommossa di Montescaglioso, La Riscossa dell’8 aprile 1898


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4 Commenti

  1. Cristoforo Magistro

    Stando quindi alla sentenza, la rivolta sarebbe stata socialmente senza testa, cioè senza galantuomini che la capeggiassero. E così era stato formalmente, i galantuomini erano rimasti a casa, a guardare da dietro le serrande. Formalmente estranei, qualcuno, Carlo D’Alessio, che non s’era neppure fatto trovare in casa dai dimostranti ed è il patriarca del gruppo di opposizione, apparirà fin troppo estraneo. Ed effettivamente non c’era bisogno che fossero materialmente presenti in piazza in quella giornata; la miccia preparata era così lunga da consentire di provocare l’esplosione senza apparire sulla scena e nella sicurezza che la gente si sarebbe mossa anche senza di loro.

    Il risultato atteso era l’abbattimento della vecchia amministrazione e l’affido a loro del potere municipale da parte del prefetto, ma così non era stato e solo a processo concluso costoro, che durante la bufera degli arresti e della carcerazione avevano abbandonato alla loro sorte i dimostranti, se ne faranno i paladini su qualche giornale. Ecco cosa, ad esempio, scriveva su La Riscossa, un anonimo, probabilmente uno degli avvocati difensori che non s’era dimostrato di grande efficacia durante il dibattimento, all’indomani della sentenza:

    Un giorno, che doveva essere il dì della liberazione, e fu invece il giorno del terrore e della repressione feroce, per quello che avvenne prima e per quello che è accaduto poi, il 10 gennaio di quest’anno, il popolo di Montescaglioso insorse. Ma nel più legale dei modi, con la più pacifica delle dimostrazioni, e volle in maniera solenne, plebiscitaria, esprimere la sua sovrana riprovazione a tutte le regìe cointeressate delle pubbliche amministrazioni locali…

    Già queste righe dicono che la dimostrazione non fu improvvisata e spontanea, ma è nel prosieguo che l’articolo si fa decisamente interessante. Precisamente quando, procedendo all’ennesima ricostruzione della dinamica dei disordini, si ribalta sul sindaco l’accusa di complotto ai danni dei dimostranti. Secondo l’articolista, infatti, il popolo sarebbe stato da lui “prima spinto con voluttà acre e nuova al delitto” e poi intrappolato nelle maglie della legge:

    E fu tratto in agguato, e si attese che il popolo diventasse folla, e se ne acuirono gli istinti irrefrenabili e si mostrarono le armi e poi si abbandonò all’insana opera di quei monelli e di quegli ebbri il palazzo degli uffizii. Dopo si gridò alla rivolta.

    Saranno andate veramente così le cose? Ora: è vero che la Basilicata si chiama così perché  è stata per un lungo tempo dominio di gente ambigua e complicata come i bizantini, così come è vero che nel dialetto locale esiste un termine, trapulon’ (trappolatore, tenditore di trappole, orditore di inganni), per indicare chi è bravo a preparare tranelli per inguaiare qualcuno fingendosene  magari amico, ma si fatica a credere a una macchinazione di così perversa raffinatezza.

     Intanto, però, vere o false che fossero, accuse come questa non potevano che intossicare l’ambiente e dare impulso alla preparazione di nuovi veleni. D’altra parte era ben per questo che ognuna delle due fazioni aveva la propria farmacia sempre all’opera… 

    Più ordinarie appaiono le accuse di affarismo che si facevano al sindaco e a qualche assessore indicati come soci occulti di un appaltatore edile (Nicola Andrisani), dell’esattore delle imposte (un Locantore) e di alcuni bernaldesi affittuari dei terreni demaniali. Bernalda è un ingrediente importante del pasticcio montese che stiamo cercando di capire; in un primo momento si era perfino detto che la rivolta fosse stata sobillata dai due-trecento bernaldesi che erano stati i più colpiti dalla tassa bestiame disposta dal comune. A tale riguardo, per capire alcune intricate vicende, è bene tenere presente che, in quanto affittuari di terre dell’agro montese questi erano contribuenti e, in virtù di ciò, anche elettori a Montescaglioso. Ciò faceva sì che chi controllava il Municipio, potesse chiedere ai bernaldesi di votare per un certo candidato, oppure di astenersi, spesso con la certezza che quei voti avrebbero fatto la differenza.

    Si faccia ora caso a questo passaggio: La stampa ha dimostrato che nel bilancio comunale di Montescaglioso il danaro delle cospicue rendite patrimoniali si profonde a piene mani in spese di mero lusso, si spartisce fra pochi, che in tutte le aziende, che in tutti gli affari hanno le mani.

    Le cospicue rendite patrimoniali – centoventimila lire secondo gli avversari, ottantamila lire annue secondo gli amministratori, in tempi in cui un bracciante non arrivava a prendere a una lira al giorno – di cui sopra derivavano fondamentalmente dai grandi demani comunali. Sui canoni da applicare, sui vincoli da imporre, sulla durata del contratto e sulla scelta degli affittuari si giocava la grande partita del potere municipale.  Se si considera che uno stesso terreno demaniale a pascolo poteva affittarsi a 250 lire annue a un montese, oppure a 1500 lire a un bernaldese senza, ovviamente, che questi ci rimettesse, si capisce quanto ampi fossero i margini di discrezionalità degli amministratori e quanto forti le tentazioni di servirsi di prestanome montesi mentre il reale affittuario era un devoto di San Berardino[1]. Stando così le cose, lo scambio di “carezze e mozzarelle” fra la conventicola di Palazzo Sant’Angelo e gli aspiranti coltivatori delle sue tenute rientrava nella normalità dei rapporti fra chi si abbeverava alla stessa fonte[2].  

    Anche perché non di sole mozzarelle viveva l’amministrazione montese. Per lo meno questo è ciò che viene da pensare confrontando alcune voci del suo bilancio con quelle dell’amico-nemico comune di Bernalda che aveva presso a poco la stessa popolazione. Il raffronto fatto da un corrispondente che si firma Uno di Bernalda e da me riepilogate nella tabella che sotto si riporta, rende bene l’idea di quante manovre di dubbia correttezza si potessero nascondere sotto il manto della legalità. Ad eccezione infatti del contributo, per l’asilo – i cui costi pure erano aumentati con il passaggio di gestione dalle maestre d’orientamento froebeliano che aveva il gioco al centro del rapporto pedagogico a quattro vecchie suore dell’ordine del Sacro Costato – che rendeva Montescaglioso benemerito verso l’infanzia, alcune spese appaiono francamente ingiustificate e tutte le altre eccessive. E non mi riferisco tanto al contributo per le feste patronali, né alle spese per il culto, ma a quelle, ad esempio, per la condotta medica che superavano di cinque volte quelle di Bernalda, a quelle per la pubblica illuminazione e per la nettezza urbana, più alte rispettivamente di quattro e due volte. Davvero la salute era tanto meglio tutelata e le strade così meglio illuminate e pulite a Monte rispetto a Bernalda? E neppure mi riferisco al sostanzioso assegno per la banda musicale con il quale l’amministrazione Andriulli anno dopo anno smentiva il detto “non è conto la banda a Monte” che pare circolasse in provincia in quegli anni per dire che una cosa era d’impossibile attuazione.

    A proposito di bande va tenuto presente che i primi prefetti dell’Italia unita avevano cercato di contrastare i nostri comuni che distribuivano pingui contributi alle bande prelevandoli dai fondi delle congregazioni di carità, ma, sentendosi dire dai sindaci che queste erano in genere fatte da poveri artigiani e quello era un modo di aiutarli senza umiliarli, avevano finito con l’approvare quei bilanci senza più obiezioni. A parte questo, oltre ad essere motivo di godimento estetico per gli appassionati, le bande erano causa di orgoglio per il paese che le aveva e gli aiuti che loro si davano rientravano, per così dire, fra le spese di rappresentanza. Il sostegno a una banda aiutava, e come, a mantenere la coesione elettorale attorno a un sindaco e alla sua fazione; i bandisti erano spesso artigiani, gente di piazza, e facevano opinione; una banda inoltre – specie se aveva qualche primo clarino di altri paesi – serviva a raccogliere voti nei comuni del mandamento in occasione delle elezioni provinciali e faceva numero nei cortei. Anzi bastava da sola a formare un corteo come aveva ben capito il candidato Francesco D’Alessio che nel 1919 comincerà il suo giro elettorale dai Sassi di Matera, dove nessuno in precedenza aveva mai messo piede, preceduto dalla banda di Montescaglioso. E che, a dispetto di ogni previsione, fu eletto; altro che non è cosa la banda a Monte !

    Spese facoltative

    Spese obbligatorie

    Montescaglioso

    Bernalda

     

    Personale segreteria

    4300

    2400

     

    Salariati comunali

    576

    120

     

    Stipendio tesoriere

    2300

    450

     

    Spese d’ufficio

    1327

    760

     

    Condotta medica

    8650

    1545

     

    Pubblica illuminazione

    2825

    600

     

    Nettezza urbana

    980

    400

     

    Culto pubblico

    304

    85

     

    Feste patronali

    150

    0

     

    Spese culto

    215

    0

    Assegno alla banda musicale

     

    2500

    0

    Assegno all’asilo d’infanzia

     

    2400

    0

    Assegno al sindaco

     

    153

    0

    Servizio di Pubblica Sicurezza

     

    250

    0

    Totale

     

    26930 

    6360 



    Montescaglioso-Bernalda: voci di bilancio a confronto

     

    Nota: seguirà probabilmente una terza parte

     

    [1] Echi lucani, La Basilicata del 17 marzo 1898

    [2] Spargere verum scriptis, La Riscossa del 18 agosto 1898

  2. drago

    Complimenti al prof Magistro, questo racconto ha un valore simbolico molto alto, perchè ricorda le pagine del “Cristo si è fermato ad Eboli” libro di Carlo Levi (anche il film) o i momenti dello spettacolo “La storia bandita” della Grancia. Descrive la nostra storia e anche il carattere delle nostre comunità. C’è il nostro carattere paziente abituato ai soprusi, c’è l’esplosione della protesta in forme non organizzate e spesso violente quando si arriva a toccare la terra. C’è il tramandarsi dei riti feudali del potere, con l’arrroganza di chi detiene una carica pubblica. C’è l ‘ambiguità della classe dirigente e il suo spirito di conservazione e c’è la giustizia inflessibile con i poveri. C’è anche l’importanza dell’arte, ad esempio le bande.

    Questo episodio ha delle grandi potenzialità, andrebbe raccontato anche alle persone che visitano Montescaglioso.

    @MarioDimichino

  3. Cristoforo Magistro

    Torno a ringraziare Mario per l’apprezzamento del mio lavoro.

    Tempo fa, in un suo altro post – La storia come occasione – accennava alla possibilità di far diventare motivo d’interesse turistico i fatti storici.

    Anche a mio parere si potrebbe fare, magari senza falsificarli come fanno – o per lo meno facevano un po’ di anni fa – a Brindisi di Montagna con il brigantaggio.

    Si potrebbe fare, ma io non saprei proprio come.

    Se tu ed altre persone serie lo sapete e volete provarci, io, per la mia parte, ci sto.

  4. Cristoforo Magistro

     

    Ma torniamo al nostro bilancio e, senza neppure soffermarci sulle 153 lire che il sindaco percepiva per accogliere ed ospitare le autorità forestiere che giungevano in paese, proviamo a capire quali servizi compensavano le 250 lire destinate alla Pubblica Sicurezza. Dovremo accontentarci dell’ipotesi così formulata dal solito bernaldese: Se si ritiene che il Sindaco Andriulli, malauguratamente sia Sindaco, e Sindaco da ventidue anni, di un comune di poco buona gente…o Sindaco di un paese in cui tutti si ingegnano in mestieri poco puliti; come si è confessato quel Consigliere e vice pretore Venezia nella lettera alla Riscossa; si spiega e giustifica che il povero Cav. Andriulli, non bastandogli la brigata di cinque carabinieri, né dieci e più guardie campestri, per cui si spendono lire 5808, né due guardie urbane, che prendono altre lire 750; né una guardia daziaria ed una guardia municipale, che pur hanno un salario e portano la loro daga, si faccia avere sul bilancio quell’altra somma, per un servizio tutto particolare da lui disposto, come l’altra per l’ospitalità, se così non fosse, resterebbero accreditate le voci che Pantalone paghi per mantenere non pure bargelli lunghi o corti, ma il servizio di spionaggio, che è la piattaforma di quella cricca al potere in Montescaglioso[1].

    E dovremo ammettere che non era un’ipotesi campata in aria e frutto di malizia poiché vent’anni dopo la stesa voce di spesa, aggiornata a 400 lire annue, sarà oggetto di una perplessa richiesta di chiarimenti inoltrata dal commissario al sottoprefetto. Il quale sottoprefetto risponderà che, per quanto fosse strano che un comune avesse un tale servizio, la nota per spese di PS era da considerarsi  regolare dal momento che non era pensabile che si potessero indicare i nomi degli informatori pagati per averne le confidenze[2].

    Insomma il comune di Montescaglioso spendeva e spandeva; per di più poco curandosi di organizzare un’efficiente riscossione delle entrate. Il dazio sui consumi infatti fruttava appena 2500 lire, da cui erano da detrarre 1000 per spese di  esazione, mentre alle casse del comune di Bernalda portava 3293,99 lire nette. Applicato fondamentalmente sulla vendita del vino e delle carni, avrebbe dovuto colpire quindi i vinificatori e gli allevatori, vale a dire le “grandi famiglie” che controllavano l’amministrazione oppure ne rappresentavano l’opposizione.  A Montescaglioso vinificavano i D’Alessio-Salinari  – che avevano sperimentato anche la produzione di un amaro venduto nelle farmacie-  ed aveva mandrie al pascolo lo stesso sindaco Andriulli.

    É difficile, e non ha neppure molto senso, etichettare come  destra o sinistra lo schieramento facente capo a questi clan. Ognuno poteva dare, e così sarà fino all’unificazione portata dal fascismo, il cambio all’altro, ma non gli era assolutamente alternativo. Non diversamente da quanto accadeva a livello nazionale, la lotta in Lucania e a Montescaglioso fu interna alla stessa, unica, maggioranza. Chi vinceva le elezioni guadagnava il diritto a guidare quella maggioranza. Come dire? Cambiava il fantino, non il cavallo; né le cose erano mutate nel 1876 con l’avvento al potere di Agostino Depretis il cui trasformismo o  “amalgama” – come anche fu chiamato – non creò una dialettica parlamentare che favorisse un reale cambiamento. Per questo bisognerà aspettare  l’inizio della cosiddettà età giolittiana (1901-1914) che indubbiamente portò al superamento delle tendenze autoritarie di fine secolo delle quali il modo in cui furono repressi i moti del ’98 diedero una terribile prova e ai primi tentativi d’integrazione del giovane movimento operaio e socialista all’interno  di una democrazia liberale aperta alla ricerca di equilibri più avanzati.

    In Basilicata – auspice Pietro Lacava, chiamato da Agostine Depretis il ” lupo di Corleto”, che dopo essere stato ministro con  Crispi e Pelloux, sarà il plenipotenziario di Giolitti su tutto il Meridione continentale – il giolittismo avrà una sua particolare declinazione e a Montescaglioso coinciderà con la conquista del municipio da parte dei D’Alessio-Salinari che di liberale avevano ben poco e faranno rimpiangere i tempi del dominio del magiaro-ungherese Andriulli.

    Avviandoci alla conclusione di questo tentativo  di studio a tutto tondo della sommossa del 10 gennaio e delle sue particolari cause di origine, va considerato che era da tempo che i giornali regionali – fogli, per lo più tutt’altro che progressisti – descrivevano a tinte fosche il modo in cui erano amministrati  i comuni lucani. Miseria morale e mancanza di ideali nel ceto dei galantuomini , occupavano il potere nei municipi a scopo di dominio e arricchimento personale, ne dilapidavano le risorse e li immiserivano. Monopolizzato ognuno da una o più famiglie che vi governa con “dispotico ed intangibile imperio”, si appoggiano alle clientele – “una siepe di piccoli e malvagi interessi i quali assorbono le risorse dei bilanci comunali e rendono esausta l’azienda pubblica” – che le fanno ruota e che in tempo di elezioni  producono la maggioranza.  Qualora questa sembri a rischio, basta modificare le liste elettorali aggiungendovi i nomi degli amici e togliendo quelli dei nemici. É il partito dominante ad avere il mestolo in mano e una volta conquistato il governo del paese, è facile conservarlo. Vi si poteva anche arrivare con una maggioranza risicata: “le finanze comunali, gli impieghi, le tasse penseranno poi a fortificare i pervenuti ed a sgominare gli avversari”. Prova ne era la lunga durata di quelle amministrazioni.  

    Fra morti, emigrati e raggiungimento delle condizioni previste dalla legge per votare (età, reddito, grado di istruzione), quelle liste avrebbero avuto costantemente bisogno di aggiornamenti da parte degli uffici anagrafe dei comuni. Fare seriamente questo lavoro era spesso difficile per carenze o imperizia del personale, ma non lo si faceva principalmente perché mancava l’interesse a farlo. Secondo la stampa locale, in materia elettorale i comuni lucani si dividevano fra quelli “indifferenti” e quelli “dilaniati dai partiti”. Nei primi le liste si conservavano sempre “smilze, modeste e quasi sempre eguali d’anno in anno”; negli altri invece “una lista che conta un centinaio di elettori l’anno appresso la trovate salita a mille, salvo a tornare l’anno successivo a cinquanta, per poi risalire a milledugento…In qualche comune della provincia per togliere agli avversari il diritto elettorale, elettori già iscritti sono stati radiati dal ruolo focatico con danno evidente dell’amministrazione… “. L’aggiunta o la radiazione di centinaia di elettori era considerata una pratica normale specialmente  quando vi erano gare fra comuni dello stesso mandamento per l’elezione  di un paesano al consiglio provinciale e sicuramente il dato sull’istruzione era quello che meglio si prestava alle falsificazioni. “Degli analfabeti poi non ne parliamo, perfino i vecchi sindaci si sono fatti risultare in quella categoria” spiega il cronista, ma ancora più facile  e -per così dire – redditizio era convertire in istruiti gente che non sapeva fare neppure la O con il bicchiere [3].

    A questo riguardo si veda, ancora una volta, l’esempio di Monte le cui liste elettorali però invece di impoverirsi  si arricchirono di letterati d’occasione con un’infornata di circa duecento analfabeti quando, nel 1875, bisognava far eleggere – e fu eletto – consigliere provinciale il notaio Nobile di cui abbiamo già detto (si veda l’allegato pdf intitolato Truccare le elezioni).   

    In un tale clima, poco scrupolosi amministratori, assistiti da segretari comunali corrotti, truccano i bilanci e impongono pesanti balzelli agli avversari mentre ne fissano di mitissimi per i propri sostenitori. Più in generale in materia fiscale vige quello che uno studioso come Francesco Saverio Nitti chiama “socialismo alla rovescia”. Stando così le cose, prosegue Il Lucano, la bonaccia è solo apparente anche perché -come si è già visto- sotto le ceneri di un’apparente tranquillità ogni tanto il fuoco tornava a divampare:  Già in diversi ed estremi punti della provincia qualche segno si è avuto che le fiamme non sono lontane. I morti di Bernalda ed il sangue che sporcò quelle vie, qualche cosa dovrebbero insegnare. Le fucilate e gli incendi di Forenza, i brutali assalti della plebaglia di Palazzo San Gervasio a pochi soldati, le fiamme agli archivi comunali di Montescaglioso e le frementi dimostrazioni di Pomarico e di Genzano avvertono che nelle regioni tenebrose della pubblica coscienza  vi sono sussulti e convulsioni che un giorno potrebbero produrre scoppi e convulsioni che un giorno potrebbero produrre scoppi e conflitti assai dolorosi per questa nobile regione [4].

    Nei mesi e negli anni immediatamente successivi fortunatamente non succederà nulla di grave per cui questo può considerarsi l’episodio che chiude la lunga stagione lucana di jacquerie, cioè di rivolte che si concludevano con la repressione e portavano alla restaurazione dell’ordine precedente. Non succederà nulla di grave per un paio di motivi.

    Prima di tutto perché con l’esodo di massa verso le Americhe si  scoperchia la pentola che la miseria generatrice di ribellione rischiava di far scoppiare. Se questo è vero, e a parer mio lo è profondamente, l’emigrazione non dovrebbe più essere considerata solo per ciò che ha fatto di buono, ma anche per  il male che sicuramente ha evitato. Se ipotizziamo che per ogni emigrato, grazie ai risparmi mandati in patria, almeno un paio di persone non abbiano patito la fame, possiamo anche fondatamente supporre che a ogni mille-due mila emigrati  abbia corrisposto una rivolta in meno.  

    E secondariamente perché, di lì a pochi anni, a guidare la protesta delle popolazioni, in particolare quella dei contadini che ne sono la componente maggioritaria, saranno i circoli e le leghe socialiste che nei primi anni del Novecento sono sorte in vari paesi.  Fra i tanti è da ricordare il grande sciopero di Lavello, il primo in assoluto in Lucania, che si sviluppa fra il 4 e il 7 maggio 1902 portando in piazza fra i tre e i quattromila partecipanti. Li guida un capopopolo naturale, il contadino Mauro Carretta che ha come consiglieri gli avvocati socialisti Luigi Picece e Raffaello Pignatari.

    Ciò che consentirà di ottenere dagli agrari un notevole aumento di paga, sarà però la rete organizzativa che hanno alla spalle, la solidarietà del partito socialista e delle leghe contadine  di Puglia e Basilicata che si impegnano affinché nessun crumiro prenda il posto degli scioperanti. “Lavello – scriverà il foglio socialista che segue con spasmodica attenzione questi eventi – è stato il primo paese che ha rivendicato a sé la gloria di dimostrare all’Italia lavoratrice e proletaria che la Basilicata s’è desta[5]“.

    Farà epoca, di lì a un mese, anche la mobilitazione dei contadini e dei pastori di Matera ad opera di Luigi Loperfido, il Monaco Bianco che tutti conoscono per il suo particolare abbigliamento e la barba alla nazarena mentre “nessuno ne conosce abbastanza le nobili qualità di mente e di cuore, la ingenua ed innata bontà[6]“. Anche questo straordinario predicatore che un osservatore come Ausonio Franzoni definirà un “interessante apostolo della rigenerazione proletaria”, meno naif di quanto si sia voluto dipingere[7], ha un consigliere politico che viene dalla borghesia progressista potentina, il professor Michele D’Errico. E anche grazie alla sua mediazione – è lui che a più riprese si incontra con il viceprefetto e con i rappresentanti dei proprietari – la vertenza sembrerà chiudersi pacificamente e vittoriosamente per i contadini che ottengono la firma da parte dei proprietari di un concordato che fissa a otto ore la giornata lavorativa e ad una lira e trenta centesimi la paga da dare tutto l’anno. Durante la stagione della mietitura invece l’orario di lavoro andrà dalle 4,30 del mattino alle 19 serali con una pausa di tre ore a mezzogiorno e la paga sarà di due lire e cinquanta oltre il vitto per gli uomini e di novanta centesimi al giorno per le donne e i ragazzi fino ai 17 anni.

    In realtà molti proprietari violeranno il patto già il giorno dopo la sua sottoscrizione impiegando manodopera forestiera che fanno arrivare direttamente nelle masserie. La tensione fra le parti esploderà quando, il 27 giugno, uno di loro chiamerà la polizia per far cacciare dalle sue terre quanti, uomini e donne, stanno raccogliendo le spighe cadute durante la mietitura. Visto il gran numero di spigolatori le forze dell’ordine si limitano a prendere nota dei nomi e la mattina seguente all’alba procedono ad alcuni arresti. Durante il tragitto verso il carcere, una guardia nota un certo Giuseppe Rondinone che il giorno precedente s’era fatto notare fra gli spigolatori e lo invita a seguirlo in caserma. La folla si dà allora a una sassaiola contro gli agenti cui partecipa anche questi ma, uno dei carabinieri, ferito, lo colpisce con una sciabolata al capo.

    Di lì a qualche giorno Rondinone morirà.

    Il giorno dopo a Matera arrivarono duecento soldati e si fanno numerosi altri arresti fra cui, il 3 luglio, quello di Luigi Loperfido; è accusato di aver istigato la folla, ma dopo pochi mesi dovrà essere rilasciato. Le autorità intanto cominciano l’opera di discredito e demolizione del personaggio al quale durante la detenzione vietano anche di indossare la sua classica toga bianca[8].    

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     


    [1] Echi lucani. Bernalda, La Basilicata del 28 aprile 1898.

    [2] Archivio di Stato di Matera, Gab. Pref. ricovero 90, Busta 92, Quesito, appunto del 17 aprile 1918.

    [3] La sincerità elettorale, La Provincia di Potenza del 10 luglio 1891.

    [4] La condizione dei comuni, cfr. Il Lucano del 20 gennaio 1898. Per i fatti di Bernalda si veda ANGELO TATARANNO, Vivurrè. Bernalda 8 aprile 1888. Fatti e documenti, ed. Pitagora Scolastica, Matera, 1992

    [5] Lo sciopero di Lavello, La Squilla Lucana del 20 maggio 1902.

    [6] Lo sciopero di Matera. La completa vittoria degli scioperanti, La Squilla Lucana del 20 giugno 1902.

    [7] Ausonio Franzoni, Le indagini e gli studi sull’emigrazione lucana Roma Tip. Nazionale, Bertero, 1904, pag. 174.

    [8] I fatti di Matera. La Squilla Lucana del 14 luglio 1902.

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