Il delitto dello zolfanello, seconda parte

Due giorni dopo il delitto infatti, l’assassino, chiamato dal pretore a dare la propria versione dell’accaduto, se ne mostrerà ancora indignato.

Riportiamo un ampio brano della sua testimonianza:

«Passando mia madre a seconde nozze tre anni or sono, io fui accolto da suo fratello Felice M. e moglie Caterina N. nella propria casa in mancanza di figli: accedeva intanto colà per servizi Nunzia A., donna di facili costumi, in guisa che anch’io tenni con lei rapporti illeciti; detti miei zii però allontanarono l’A., un paio di mesi fa dalla loro casa, avendo ella divulgato nel paese che io l’avrei tolta in matrimonio, mentre niuna promessa di tal fatta io mai le feci, neanche a titolo di semplice seduzione, del che non era proprio il caso stante la sua arrendevolezza nel concedere i suoi favori a chiunque la richiedesse: rileverò invece che, nonostante il suo allontanamento dalla casa dei miei zii, continuarono i nostri illeciti rapporti in altri punti di ritrovo all’aperto, come potrebbe dire il mio compagno Domenico C . di Rocco, il quale gode a sua volta i favori della sorella dell’A. a nome Felicia.»

Dopo aver detto della sbornia e della decisione di non fare la strada principale per non mostrarsi ubriaco in pubblico, lo troviamo davanti alla casa di Nunzia:

«Ella era là sul limitare della porta, mentre la nonna se ne stava di dentro […] e nel vedermi prese a dire: Ho saputo che sei stato riformato da soldato e vuoi passare a matrimonio con altra donna, ma ciò non sarà, tu devi invece mettermi casa e convivere in mia compagnia.

Tal dichiarazione valse ad urtarmi sensibilmente, sia per la qualità della persona da cui mi veniva fatta, sia pel mio stato di ubriachezza; onde le risposi a mia volta per le rime nei seguenti termini “Va’ a prenderlo in c., proprio con te, lorda, devo menare vita in comune?”

L’A. quindi, cavatosi di tasca un coltello a piega, vibrommi un colpo, soggiungendo di rimando “allora la farò per te finita con questo”. Quel colpo riuscì a perforarmi solo il mantello che le parai davanti a difesa e che esibisco per gli accertamenti di giustizia, […] per semplice dimenticanza non mi trovo  d’aver richiamato prima l’attenzione del brigadiere dei RR.CC, il quale pure mi ha interrogato, sulla traccia permanente della coltellata in parola sopra il mio mantello: a seguito di che io, maggiormente irritato dall’atto aggressivo dell’A., la disarmai e le vibrai in reazione con lo stesso coltello non ricordo più se uno o due colpi, riponendolo poi nella mia tasca: niuno presente all’accaduto su enunciato di quel giorno, salvo la nonna di costei; ond’io subito me la svignai trasferendomi per affari in casa di certa Maria Michela O., donna corrotta ella pure ed intima dell’A.: non rammento più ciò che io abbia detto e fatto presso la O., mentre ricordo solo che all’uscita della di costei casa m’imbattei nel Guardia Campestre Giuseppe D’Ettorre, il quale dichiarommi in arresto […]: fu allora che io volendo scagionarmi dall’addebito e far scomparire quindi ogni elemento che avesse potuto rivelare la mia reità, feci scivolare a terra il coltello anzidetto, ove rimase inosservato, per modo che non sono in grado di esibirlo del pari alla giustizia».

Da questa ricostruzione il G. sembrerebbe capitato per caso da quelle parti; in linea con questa linea di difesa non accenna neppure alla sua pretesa di accoppiarsi con la ragazza nonostante la presenza della nonna, né al pretesto dello zolfanello. Tuttavia ciò che colpisce, a due giorni dal fatto e, si presume, a mente lucida, è la mancanza di ogni segno di pentimento. Non solo, ma dopo l’accoltellamento ha ancora affari da sbrigare presso Maria Michela O., una filatrice trentottenne nubile, che abita in zona Monterrone.

Quali affari non è dato sapere.

Ad ogni modo, non trovandola, non riuscirà a sbrigarli eppure con costei. Si nasconde allora dietro il letto della donna con grande spavento dei  suoi  figli. Terrorizzata, la più grande, una bambina di otto, corre a chiamare la madre che, appena arrivata, chiede all’intruso cosa faccia là. Questi allora, facendo sporgere da sotto il mantello la punta del coltello, racconta di aver ucciso Nunzia A., la sorella della sua comare, perché gli ha negato dei fiammiferi. La donna fatica a credergli, ma vedendolo smaniare, “come pentito”- ed è questa l’unica volta che in tutto il ricco fascicolo processuale compare questa parola –  si convince della realtà del racconto. Intanto sopraggiunge un amico del G. che lo chiama fuori, ma mostrandosi questi  recalcitrante ad uscire, la donna lo caccia “per non restare compromessa dal contatto con un delinquente”.  Quanto all’uccisa la Maria Michela, dirà di ritenere che, “salvo il suo carattere stupido e leggiero, né con il G. né con altri, era ancora caduta in peccato”.

La stessa cosa diranno altri vicini. Da Giuseppe Venezia che ne aveva raccolto le ultime parole (“Sempliciona l’A., mezza scema, cenciosa e povera di spirito, non si faceva sentire per alcun verso nel vicinato onde la di lei onestà non era nemmeno discussa”), alla Natale che risulterà poi essere stata testimone oculare del delitto (“ignoro […]se vi siano stati rapporti illeciti; non lo credo ad ogni modo perché non la si riteneva disonesta nel vicinato: G. d’altronde non fu visto mai più accedere nella di lei casa”). Negherà ogni cosa anche l’amico insieme al quale il quale il G. aveva affermato di essere andato ad amoreggiare con le sorelle A.

In questo intreccio fra verità e menzogne, opportunismo ed umana pietà, gli unici a non aver dubbi sono i carabinieri. Questi, dopo aver saputo del fatto dalla voce pubblica, si recano sulla scena del delitto “per chi sa dalla medesima potevamo sapere qualche cosa”, ma non possono far altro che constatare che “la misera pochi secondi prima aveva esalato l’anima nelle braccia del contadino di qui Gravina Francesco” dopo avergli detto chi l’aveva ferita. E solo dalla nonna, unica presente alla scena, potettero sapere che il G. piombato nella loro abitazione ” briaco e con bestemmie e parole minacciose, voleva indurre come le altre volte, (risulta che l’A. era quasi in concubinato col G.) a sfogare le sue voglie libidinose, l’A. non si sa il perché non volle aderire, ed il G. infuriatosi, tirò il coltello di tasca e tirò due colpi all’A. stendendola al suolo”.

Come si è già detto, risulterà dopo che la nonna non era stata l’unica testimone, ma ciò che colpisce in questa verbalizzazione è il fatto che venga attribuita all’anziana la perentoria dichiarazione che il G. volesse sfogare su Nunzia  le sue voglie, “come già altre volte”. Non abbiamo già saputo dalla testimonianza al pretore che l’anziana si sarebbe fieramente opposta al fatto che, con la scusa dello zolfanello, questi  entrasse in famigliarità con la nipote e che si spingesse a filosofare sul naturale istinto di cacciatore dell’uomo? Ma ciò che più sembra interessare il graduato Carlo Losa – un piemontese a giudicare dal cognome che nel dialetto del Torinese significa lastra, pietra piatta usata per la copertura dei tetti-  non è l’accertare se effettivamente il G. avesse colpito per legittima difesa, ma come mai la ragazza, quella volta, non ci fosse stata. 

Nota: seguirà una terza, ed ultima, parte.


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