Le lettere ritrovate

I documenti che si riporteranno nella seconda parte di questo articolo sono due lettere del 1945. La prima è di una madre al figlio combattente in Albania; la seconda, di un soldato tornato a Monte da due giorni, è diretta a una signora albanese che, ospitandolo e nascondendolo ai tedeschi dopo l’otto settembre 1943, gli aveva salvato la vita.

Tutte e due provengono dalla corrispondenza formata dalle migliaia di lettere da e per l’Albania che non giunsero mai ai destinatari perchè furono bloccate dalla censura militare. Inutile dire che la stessa sorte toccò alla corrispondenza verso tutti i paesi in cui c’erano nostri soldati.

La censura era stata istituita in tutti i paesi in guerra per impedire che le brutte notizie deprimessero il morale dei combattenti e dei loro famigliari, ma fu conservata per un certo tempo anche nei territori liberati dal nazifascismo.

1. Dopo l’otto settembre

L’arco di tempo al quale è da riferire la corrispondenza censurata va quindi dal settembre 1943 al 1945 che vide il ritorno a casa della maggior parte dei sopravvissuti. Qualcuno, dato per disperso in Russia, continuò ad essere aspettato ancora per molti anni dopo la fine della guerra. Al riguardo un film di De Sica, “I girasoli”, del 1970, offre una buona testimonianza della lunga eco suscitata dal conflitto.

La maggior parte dei nostri soldati mancava da casa dal 1940, il primo anno di guerra. Erano partiti a diciannove-venti anni con le fanfare e chi era riuscito a tornare, lacero e affamato, terrorizzato da ciò che aveva visto e incredulo per la fortuna che gli era toccata, si portò poi addosso per sempre la sensazione di essere scampato all’inferno.

1943. Grecia, un soldato montese, a destra

1943. Grecia, un soldato montese, a destra

Non sono cose di cui parlano volentieri, ma è ancora possibile farsi raccontare da qualche anziano l’ingloriosa odissea toccata ai ragazzi mandati da Mussolini a conquistare l’improbabile impero costituito dal Paese delle Aquile e poi a spezzare le “reni alla Grecia”. Come è noto, male armati e peggio vestiti, si trovarono in difficoltà già di fronte alla resistenza greca e jugoslava e finirono poi, indipendentemente dal valore e dal coraggio individuale, prigionieri degli anglo-americani o, peggio, degli ex alleati tedeschi. Molti riuscirono a salvarsi dai campi di concentramento o dalla fucilazione da parte dei nazisti proprio grazie agli aiuti delle popolazioni che erano andati a sottomettere.

I nostri soldati-contadini e i contadini-resistenti dei paesi occupati si riconobbero a naso e non ebbero bisogno di parole per spiegare che il governo fascista era una cosa e loro un’altra. E fu allora che alcuni dei nostri, più di quanti si creda, decisero di schierarsi a fianco dei “ribelli”, i combattenti per la libertà del proprio paese.

Vari studi e testimonianze hanno reso noto da tempo quelle vicende. Un modello è sicuramente quello fornito, con partecipazione e ineguagliata maestria, da Nuto Revelli per la provincia di Cuneo, ma ai giorni nostri il cosìddetto revisionismo, la divulgazione strillata e l’apparato creato per produrre una storia-spettacolo sempre più mercificata, tendono ad accantonare con fastidio opere del genere.1

Meno note sono le condizioni in cui si trovarono a vivere le famiglie sia dei combattenti che dei civili emigrati in Germania o in altri paesi che facevano parte del nostro “impero”. Considerando che nell’estate del 1943 erano mobilitate le classi di leva dei nati fra il 1907 e il 1925, è facile dedurre che quasi tutti avevano qualche congiunto in guerra o emigrato in paesi in guerra. Molte più di uno. Sotto altri aspetti, ciò significò che il lavoro per la sopravvivenza dei civili e per la produzione di guerra, il cosiddetto fronte interno, ricadde per cinque anni su anziani, adolescenti e donne.

Non era il lavoro, nè la scarsità di cibo a spaventare una popolazione che sapeva da sempre cosa fossero fatica e privazioni, ma dopo l’otto settembre l’Italia fu tagliata in due e occupata, lungo un confine in costante movimento, nella parte meridionale dagli anglo-americani e in quella settentrionale dai tedeschi. Con l’armistizio dell’otto settembre ai nostri soldati – sparsi su un fronte che andava dal Nord Africa, ai paesi mediterranei orientali (Jugoslavia, Albania, Grecia), alle steppe russe – si impose di scegliere se restare alleati ai tedeschi o aderire al governo Badoglio.

A spingerli verso l’una o l’altra parte furono a volte il caso e le circostanze, ma l’odio maturato contro fascismo e nazismo indicò ai più la strada da seguire Una scelta dolorosa sempre, spesso resa tragica dalla brutalità degli ex alleati tedeschi che potevano adesso manifestare i loro sentimenti verso gli italiani. A Cefalonia, in Grecia, lo fecero trucidando 5466 fra soldati e ufficiali della divisione Acqui che avevano rifiutato sia di schierarsi dalla loro parte che di arrendersi. I 3000 sopravvissuti allo sterminio furono destinati ai lager, ma morirono poi nell’affondamento delle tre navi che dovevano portarli a destinazione.

Quello di Cefalonia non è che uno fra i più noti degli eccidi nazisti. Il caso volle che seguisse di un solo giorno quello di Matera (22 settembre) che provocò 21 morti e precedesse, per limitarci a quanto accadeva in Lucania, di appena cinque quello di Rionero (18 settembre) che ebbe 15 vittime.2

1943, autunno, Castelsaraceno (Pz)
1943, autunno, Castelsaraceno (Pz)

Montescaglioso nel secondo dopoguerra

Si è detto prima che molti soldati italiani sparsi fra Jugoslavia, Albania e Grecia, da occupanti, si trasformarono in prigionieri dei resistenti di quei paesi e che un certo numero di essi passò poi al loro fianco.

Fu ciò che fece anche qualche montese. Per esempio Francesco Bubbico, che, dopo essere stato con i partigiani di Tito in Jugoslavia, combattè nelle formazioni garibaldine del basso Piemonte e maturò la scelta che lo portò a diventare comunista e, tornato a casa, sindaco di Montescaglioso. Dopo il socialista Giudino Cifarelli, indicato dal Comitato Comunale di Liberazione, fu, infatti, il primo sindaco scelto non da prefetto e notabili, ma da una popolazione formata allora in maggioranza da braccianti, contadini e operai. Quella elezione, svoltasi in un clima da stato nascente, segnò uno spartiacque col passato e proiettò sugli amministratori social-comunisti grandi speranze e aspettative. Ostacolati in tutti i modi da prefettura, questura e uffici dipendenti – diretti, se non dagli stessi uomini, con lo stesso spirito del ventennio fascista – questi si trovarono di fronte a problemi immani, ma fra limiti, contraddizioni e ingenuità, dimostrarono che una diversa e migliore gestione della cosa pubblica era possibile.

Sicuramente i migliori risultati li conseguirono più che sul piano della realizzazione di “cose” (strade, piazze, edifici) – d’altra parte c’era poco da realizzare in presenza di bilanci dissestati – su quello sociale. I risultati si ebbero nella dimensione immateriale di un mutamento che portò una popolazione che era considerata, e in larga parte si considerava, plebe ad affrontare il difficile percorso per trasformarsi in popolo. Quegli amministratori resero i municipi, tradizionalmente simbolo e strumento del dominio dei galantuomini sui poveracci, la casa di tutti.

E, soprattutto, si posero come mediatori del conflitto sociale, politico ed economico al calor bianco che agitò il paese per circa dieci anni a partire dal tardo autunno del 1943. Qualunque possa essere oggi il giudizio sull’uccisione del podestà Francesco Locantore, avvenuta il 19 settembre col tacito assenso delle truppe canadesi arrivate quello stesso giorno in paese, va ricordato che già allora quel tipo di mediazione, ancora e del tutto – come è facile immaginare – in germe, valse a evitare maggiori spargimenti di sangue.3 E quel tipo di mediazione, che già da sei lunghissimi anni si era dimostrata capace di gestire democraticamente uno dei più accesi movimenti per la terra ai contadini di tutta l’Italia meridionale, fu del tutto ignorata nel corso della brigantesca azione di polizia voluta dal ministro Scelba che nel dicembre del 1949 portò all’uccisione del bracciante Giuseppe Novello.

Montescaglioso, dicembre 1949, funerali di Giuseppe Novello
Montescaglioso, dicembre 1949, funerali di Giuseppe Novello

Ma per farsi un’idea della situazione di partenza e delle resistenze che la spinta al mutamento incontrava, si considerino le annotazioni sui rapporti fra “galantuomini” e gente comune di seguito riportate.

Scriveva nel 1902 Ausonio Franzoni al termine della missione di cui il presidente del consiglio Zanardelli, che in quello stesso anno visiterà la regione, lo aveva incaricato per studiare i motivi dell’emigrazione che stava spopolando la Basilicata:

Verrà opportuno più tardi soffermarci sull’influenza gravissima che il modo d’agire delle classi colte od abbienti verso quelle ignoranti e lavoratrici esercita sulla decisione dei proletari ad emigrare, non appena arrida loro un lieve barlume di decoro individuale. Certo è, che una delle impressioni più tristi, che un italiano delle province settentrionali ritrae da una visita a queste regioni, è prodotta dall’enorme distacco ivi esistente fra proprietari e lavoratori.

E ancora, riferendosi in particolare a uno dei comuni da lui visitati:

La classe abbiente li tratta da bruti, il parroco ne discorre come di gente di cui non v’ha merito ad occuparsi, il sindaco, per indurli a parlare, li strapazza e l’esattore li spoglia.

Può sembrare assai fosco ed esagerato questo quadro; ma se dal giudizio generale scendessi alle osservazioni particolari, potrebbe apparire benigno.4

Circa mezzo secolo dopo poco era cambiato e in un discorso, tenuto a Potenza nell’ottobre del 1947, il grande economista agrario Manlio Rossi Doria dirà al pubblico raccoltosi a teatro per ascoltarlo:

Vivete gli uno accanto agli altri, in questi miseri vostri paesi, spesso senza acqua, senza luce, ma non vi toccate. I galantuomini hanno il loro corso, la loro strada nel paese, i contadini la loro;[…] non avete mai vita in comune e quando viene la festa del patrono i contadini invadono la piazza, hanno diritto alla piazza, ma allora voi galantuomini vi rinchiudete nelle case a prendere il caffè o a giocare a tressette. Ora io vi dico che non c’è nessun’altra società agricola nel mondo in cui questo distacco tra le classi rurali sia così spaventoso.

E incalzandoli sempre più a muso duro, aggiungerà in relazione al loro modo di concepire lo Stato:

Il rapporto che avete oggi rispetto allo Stato, è un rapporto servile; siete buoni solo a pitoccare dallo Stato: dacci questo, dacci quello e principalmente dacci posti per i nostri figli buoni a niente.5

Sarà appena il caso di ricordare che nè Franzoni nè Rossi Doria erano dei sovversivi, ma che, già allora, il sogno di veder diventare l’Italia un paese normale, portava paciosi intellettuali borghesi a esprimere giudizi così trancianti.

Non fu facile e nei tempi brevi la lunga marcia che doveva portare gli “umili” alla, si direbbe oggi, cittadinanza attiva non fu considerata da chi aveva bisogno di pane, scarpe e vestiti, una gran cosa. La trasformazione dell’Italia in paese industriale e la ripresa dell’emigrazione dal sud ridimensionò poi l’influenza sociale dei galantuomini e ridusse numericamente il bracciantato, ma ciò era allora imprevedibile.

Dopo la rottura dei governi di unità antifascista (marzo 1947) e, ancor più, dopo la vittoria della Dc nelle elezioni del 18 aprile 1948, è piuttosto disperazione e senso di impotenza ciò che trapela dai bilanci dei sindaci delle amministrazioni popolari le cui energie sono totalmente assorbite dalle lotte per la terra. Di questa inadeguatezza a risolvere, lì e allora, la secolare questione contadina, danno conto i versi di quello che sarebbe diventato il più famoso di quei sindaci di nuova semenza, Rocco Scotellaro:

Non gridatemi più dentro,

non soffiatemi in cuore

i vostri fiati caldi, contadini.

Eppure di fronte all’avversione dei ceti spodestati che trasformavano l’avversario politico in nemico personale e di clan, lo stesso sindaco di Tricarico si chiedeva e rispondeva:

Noi che facciamo?

Noi pur cantiamo la canzone

della vostra redenzione.

Per dove ci portate

lì c’è l’abisso, lì c’è il ciglione.

Noi siamo le povere

pecore savie dei nostri padroni.

Il poeta e sindaco di Tricarico Rocco Scotellaro
Il poeta e sindaco di Tricarico Rocco Scotellaro

Nota: La seconda parte dell’articolo è qui


1 http://www.edscuola.it/archivio/interlinea/nuto_revelli.htm

2 www.stm.unipi.it/stragi/Guerra_ai_Civili.htm

3 C. Magistro, “Il Materano fra totalitarismo e liberazione alleata” in Bollettino Storico della Basilicata n. 21/2005, pp. 37-38.

4 Commissariato dell’emigrazione. L’emigrazione in Basilicata, relazione del Cav. Ausonio Franzoni, Roma, Tip. Nazionale Bertero, 1904. Il documento è stato recentemente riedito da E. V Alliegro ed è consultabile sul sito: www.consiglio.basilicata.it/basilicata_ regione_notizie/Lucani_nel_mondo.

5 M. Rossi Doria, “I prossimi dieci anni in Lucania”, ora in “Riforma agraria e azione meridionalista”, Edizioni Agricole, Bologna 1956, pp. 288-289.


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3 Commenti

  1. Cinzia

    Cristoforo,
    grazie per aver pubblicato questo interessante articolo, che per me assume un valore ancora maggiore in quanto mio nonno, Alfonso Ditaranto, classe 1920, fu fatto prigioniero in Grecia e deportato in Germania ai confini con l’Olanda nei campi di lavori forzati.
    Tempo fa pubblicai un articoletto su questo sito, La guerra dei soldati semplici, per il quale attinsi alla testimonianza diretta di mio nonno, raccolta in un fascicoletto dal professor G. Laperchia. Te lo scrivo nel caso la cosa potesse interessarti.
    Buon lavoro
    Cinzia

  2. Cristoforo Magistro

    Grazie a te, Cinzia.
    Credo di capire quello che dici riguardo alla “guerra dei soldati semplici”. Anche io, prima che sui documenti d’archivio, avevo familiarizzato con la questione ascoltando i racconti di mio padre – anche lui del 1920 e anche lui mandato in Grecia e finito prigioniero in Germania – e di qualche suo amico.
    Sono due modi di accostarsi al problema totalmente diversi, ma l’integrazione fra testimonianze orali e fonti scritte è di grande interesse. Le lettere della gente comune relative a un fatto e a un vissuto specifico sono sicuramente un terzo filone di ricerca. Nella seconda parte del mio articolo ne saranno presentate due.
    Peccato che questo indirizzo di ricerca sia poco frequentato e che, inevitabilmente, questo tipo di materiale sia soggetto a dispersione. D’altra parte, onestamente, chi di noi conserva le vecchie lettere?
    Per questo motivo le poche che si sono conservate sarebbero da tutelare come documenti preziosi perchè danno voce a chi non ne ha mai avuta. Bisognerebbe con le carte d’interesse storico smettere di pensare che siano importanti solo quelle prodotte da personaggi più o meno grandi e insignificanti quelle scritte – spesso con grande sforzo – dalla gente comune.
    Non ho visto il tuo articolo su questo sito. Sono vivamente interessato a leggerlo insieme al fascicolo curato da Laperchia.
    Ti sarò grato se mi farai pervenire l’uno e l’altro.

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