L’UOMO INVISIBILE (Anna De Castiglione)

Stefano Ricci non era né bello, né brutto; ma il suo viso portava la peggiore delle disgrazie: era difficile da notare e facile da dimenticare.
Nessuno aveva mai provato per lui odio, antipatia o invidia; ma nemmeno compassione, stima o tenerezza; semplicemente…nessuno poteva affermare con certezza di averlo mai incontrato…

Per quanto Stefano cercasse di rendersi interessante e di attirare l’attenzione, sapeva che ogni suo sforzo sarebbe stato del tutto inutile; perché, dietro al suo viso privo di espressione, si annidava la cupa certezza di essere sempre percepito come una semplice entità, ma mai, nemmeno per un istante, nemmeno per un solo istante, come una persona reale; si sentiva trasparente come una bottiglia vuota e sapeva che, se se mai avesse desiderato incontrare lo sguardo di qualcuno, casualmente, ma puntualmente, gli occhi che cercava si sarebbero rivolti da un’altra parte…
Non diversamente da quanto normalmente accade per le donne brutte, anche Stefano attribuiva un enorme valore ad ogni parola a lui personalmente rivolta che portasse con sé l’eco di qualcosa di vagamente simile ad un qualsivoglia sentimento. Di Camilla, la sua bionda compagna di liceo, alla quale aveva tenuto le più approfondite, appassionate ed inutili lezioni di letteratura che mai furono impartite nella storia delle ripetizioni, ricordava perfettamente quelle 5 straordinarie parole con le quali lei lo salutò per l’ultima volta:
“Grazie, Stefano; non ti dimenticherò!”
Camilla pronunciò quelle parole cercando con lo sguardo un punto che doveva essere alle spalle di Stefano, ma tra le mani stringeva ancora il tema che lui le aveva appena coraggiosamente passato.
Un bacio laterale, una guancia sfiorata e fu tutto.
Ma, da quell’ultimo giorno di liceo, quelle 5 parole cambiarono il suo modo di guardare il mondo e di pensare al proprio futuro: furono la magica colonna sonora di ogni suo sogno e di ogni sua fantasia, una dolce musica di sottofondo, che, nella realtà, faceva da sottofondo alle sue eterne potenzialità e al suo eterno nulla…

Camilla apparteneva a quel genere di persone che, viste da lontano, si immaginano sempre a proprio agio; ma, in verità, aveva esattamente quel tipo di fascino che Stefano trovava irritante: con un eccesso di auto considerazione usava infilarsi in aderenti abitini, due taglie di meno rispetto alla propria, che evidenziavano il suo lieve sovrappeso, per altro eccellentemente distribuito; cambiava interessi e passioni con la stessa disinvoltura con cui dimenticava ovunque guanti ed ombrelli; e, in fondo ad un pozzo di diottrie, lasciava intuire quell’espressione vagamente distratta e perennemente annoiata che le donne ricche e intelligenti devono assumere. Ma, contro ogni aspettativa, dal momento in cui lei lo salutò per l’ultima volta, lui la trovò incantevole: quelle cinque parole sembravano avergli tatuato il cuore e non appena lui le sentì pronunciare il suo cervello malinconico cominciò a formulare pensieri quasi lieti.
In quel preciso istante, infatti, seppe che lei, e soltanto lei, avrebbe potuto riempire quel vuoto che da sempre sentiva dentro e che lui sarebbe, forse, riuscito, un giorno, ad emergere dal suo nulla.
Per anni, con ostinata determinazione, Stefano lasciò laconici messaggi a Camilla, o meglio, alla fredda estraneità della sua segreteria telefonica, illudendosi ogni volta di essere richiamato; per altrettanti anni implorò inutilmente il proprio di telefono di squillare, finché, finalmente, non si decise ad assumere un atteggiamento obliquo nei confronti della vita e a percorrere un’altra strada.
Le scrisse appassionate lettere d’amore che, con chirurgica concentrazione, calibravano virgole, parole e puntini di sospensione; in effetti, non si abbandonò mai a frasi troppo dirette od esplicite, ma la destinataria si rivelò, ben presto, piuttosto negata per la telepatia: tutte le lettere tornarono indietro con la più crudele delle risposte: “mittente sconosciuto”.
Infine, si appostò sotto il portone di Camilla nella remota speranza di poterla incontrare e farsi riconoscere; a questo solo aveva abbassato le sue richieste nei suoi umilianti patteggiamenti con il Destino; e di questo solo si sarebbe accontentato, ma nemmeno questo accadde mai…

Finchè…finchè un giorno…un giorno di vento e di pioggia nel quale Stefano si convinse, senza sapere perché, che quello avrebbe potuto essere il suo giorno fortunato, attraversando l’incrocio di una piazza che brulicava di gente e di automobili impazzite, qualcuno lo urtò e lui cadde goffamente in una pozzanghera: i clacson smisero, all’improvviso, di suonare, il traffico si bloccò, i semafori si spensero e fu come se un magico raggio di sole avesse finalmente liberato dall’ibernazione le sue più segrete fantasie.
La non bella, ma di gentile e altolocato aspetto Camilla, era infatti china su di lui e, dolcemente, lo aiutava a rialzarsi.
La carnagione luminosa della sua compagna di liceo era ora coperta da una costosa abbronzatura artificiale che poteva tranquillamente abbassare a 39 i 40 anni che in realtà le spettavano; ma lui la riconobbe all’istante: vide le sue labbra incurvarsi all’ombra di un sorriso; e capì che stava per accadere qualcosa di meraviglioso e di assolutamente improbabile.
Lei lo guardò negli occhi: prima nell’occhio destro, poi in quello sinistro; per qualche interminabile istante non accadde niente altro; per una decina di secondi almeno, miracolosamente, lo sguardo di lei, intenzionalmente fisso in quello di lui, non abbandonò la presa. Ma, dietro alle sue lenti spesse, e dietro ai suoi occhi miopi, in qualche punto perso dentro di lei, sembrò accendersi una luce. E lui, per la prima volta, si sentì guardato come se fosse una persona reale, e, magari, anche una persona intelligente.
Stefano, risucchiato dalle immagini che provenivano dal tunnel dei suoi ricordi truccati, desiderò abbracciarla stretta o forse strangolarla; desiderò soffocarla con i suoi baci repressi e poi fuggire; desiderò ridere di se stesso e poi piangerle sulla spalla fino a strizzare finalmente la spugna ed esaurire le lacrime; ma.. ma non fece nulla di tutto questo.
Rimase a guardarla, impietrito e teso, lasciando trasparire un doloroso cocktail di sentimenti, mentre qualcosa di morbido mai provata prima, gli si scioglieva dentro, tra lo stomaco e il cuore..
Fu lei a rompere quel silenzio di reciproca osservazione, quel silenzio nel quale tutto comincia a farsi chiaro; le sue parole caddero lentamente nel vuoto, come gocce d’acido:
”Caro Mario, non sai quanto ho ripensato alle tue ripetizioni di matematica….”
EPILOGO
Con insospettabile agilità, Stefano si rialzò, fece un giro completo sull’asse di una gamba e senza una parola di spiegazione, voltò le spalle alla sua bionda e abbronzata compagna, per non girarsi mai più indietro.
Camilla, frugando nella borsetta alla ricerca di qualcosa che aveva perso ma che non riusciva a ricordare cosa fosse esattamente, si chiese perché mai Mario se ne fosse andato tanto repentinamente; rifletté per qualche istante sul fatto che il teatro della vita offre spesso spettacoli assai strani, si interrogò sul potente mistero che ogni essere umano porta dentro di sé; e poi concluse, con desolata tristezza, che era probabilmente inutile lasciarsi importunare da problemi già affrontati e risolti da altri. Prima di sera, dimenticò per sempre lo strano incontro di quella mattina.
Stefano, invece, ritornando verso casa, lasciò che le lacrime gli salissero agli occhi al punto che i luccichii dei paraurti che vedeva davanti a sé si trasformarono in stelle d’argento dalla lunghe punte; passo dopo passo, sentì che il sangue defluiva rapidamente dalle sue guance accese, giù fino ai piedi e oltre, fino al cuore della terra, lasciandolo vuoto e solo: al lieve soffio di una dimenticanza, un intero castello di carte, con le sue torri, le sue scale e le sue stanze segrete, stava franando dentro di lui, mentre il suo cuore andava silenziosamente in pezzi.
Poi, grazie ad un provvidenziale attacco di quel diffuso beneficio al quale gli esseri umani in difficoltà usano ricorrere, la “schizofrenia”, si passò il dorso della mano sugli occhi, e formulò con chiarezza il suo radicale cambio di prospettiva.
Avrebbe smesso per sempre di cercare la propria immagine nello sguardo dei suoi simili e di cercare in quell’immagine il paradiso in terra; doveva arrendersi e accettare l’inferno della solitudine; ma l’inferno, dopotutto, avrebbe potuto essere meglio del purgatorio che aveva appena attraversato: in quell’inferno, avrebbe avuto più tempo per scrivere poesie, per riflettere sul peso di una goccia di rugiada e sul significato di un filo d’erba, e per ritrovare se stesso.

Quest’opera ha permesso alla milanese Anna De Castiglione di vincere il primo premio del concorso PAROLE E IMMAGINI Oggetti e Soggetti d’Amore sezione RACCONTI edizione 2005.


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