Veronica Pompeo, voce scandalosamente libera

2019-04-21 | Michele Monina

Quando ho cominciato a scrivere di musica è stato più che altro per caso, chiamato a farlo in quanto scrittore con una preparazione musicale alle spalle. Non era mia intenzione intraprendere questa strada, e ho sin da subito rivendicato il mio non essere un giornalista, al punto che, passati oltre vent’anni, non ho mai chiesto di entrare a far parte dell’Albo dei Giornalisti, né come pubblicista né come professionista, potendo evidentemente ambire a entrambe i ruoli. La cosa buffa è che i miei primi passi in questo nuovo ruolo, ruolo che col tempo è diventato se non predominante quantomeno paritario rispetto a quello di mero scrittore, sono stati tutti incentrati su interviste a cantanti, cioè su qualcosa che era peculiare del giornalismo, non certo della scrittura. Questo nonostante io abbia sempre dichiarato, e continuo a farlo anche oggi, a distanza di vent’anni e passa e con qualche migliaio di interviste alle spalle, che intervistare i cantanti sia la parte che in genere meno mi interessa del mio lavoro di critico musicale. 
Nei fatti mi capita, a volte, non sempre, anzi, raramente, di fare interviste che si rivelano assai interessanti, perché mi permettono di conoscere aspetti degli artisti che ho di fronte che altrimenti non avrei conosciuto, o almeno non così chiaramente, e perché mi permettono di conoscere anche lati privati di persone che altrimenti resterebbero per me solo dei “cantanti”. 
Gli uffici stampa, quelli almeno con cui lavoro più spesso, sanno che proprio per questo ho bisogno di tempo, di molto tempo. Motivo per il quale non partecipo praticamente mai alle conferenze stampa o alle round table, perché di fare una domanda in mezzo alle domande fatte dai miei colleghi non mi interessa affatto, e motivo per il quale, in genere, vengo posizionato a fine giornata nei giorni di promozione, così se vado lungo non costringo nessuno a aspettare fuori dalla porta.
Per il medesimo motivo odio le interviste telefoniche, che permettono un contatto solo orale, e non visivo, e rifuggo da quelle scritte, dove devi mandare una serie di domande preconfezionate per ricevere una serie di risposte, senza la possibilità di un dialogo (un po’ come fare un’intervista per messaggi vocali, in pratica, anche peggio).
Succede però che a volte non ci sia altra possibilità di fare interviste telefoniche, per la distanza tra te e il tuo interlocutore, e che per una serie di motivi queste interviste slittino di giorno in giorno, per una serie di contingenze che sarebbe noioso tirare in ballo.
Mi è successo con Veronica Pompeo, cantante e compositrice lucana che ha tirato fuori, nei mesi scorsi, un’interessantissima opera intitolata A Provincial Painter Moods. Uso la parola opera, invece che disco, album, o, forse è questo il caso, EP, perché già al primo ascolto, ripeto, mesi fa, mi era stato chiaro che non si trattasse di un semplice “disco”. A Provincial Painter Moods, infatti, è un’opera che prende le mosse da due precedenti lavori. Il primo è uno spettacolo scritto da Dacia Maraini, il secondo è la sonorizzazione di quello spettacolo, composto da Domenico Capotorto. Veronica Pompeo, una sorta di “mostrum”  canoro rimasto fin qui sottotraccia, è incappata in questa opera in evoluzione e ha deciso di farla propria. Andando a scrivere canzoni sulle composizioni di Capotorto, riprendendo ovviamente il concept della Maraini, questa storia di emancipazione femminile che passa attraverso i sogni di una giovanissima che sogna di diventare pittrice. Quindi un doppio romanzo di formazione, di una artista che cerca di uscire dal bozzolo, e di donna che, appunto, di quel bozzolo, di quel corpo, è incarnazione. Il risultato è qualcosa di unico e sorprendente. Perché la Pompeo è una virtuosa della voce. Talmente virtuosa da necessitare, forse, di un termine nuovo per riuscire a descriverla. Per far passare attraverso la parola scritta un miracolo, il virtuosismo che non appaia forzato, ma anzi, talmente naturale da stupire, sconvolgere, lasciare di sasso. Una voce capace, questo è evidente a chiunque la ascolti, di imprese epiche, come solo la natura sembra in grado di fare.
Ecco, è con Veronica Pompeo che ho fatto una lunga intervista al telefono, giorni fa. Dopo aver lasciato che questa intervista scivolasse di giorno in giorno, come a volte capita di fare con i lavori che non si vogliono fare. Non era questo il caso, ma così è andata. Poi, però, l’intervista si è rivelata, parlo per me, una sorta di altro “mostrum”, una chiacchierata di oltre un’ora e mezza durante la quale si è sì parlato di A Provincial Painter Moods, ma anche di molto altro, da Ildegarda Von Bingen a Matera, città nella quale insegna e opera, dal femminile al concetto stesso di corporeità e di emancipazione, come se questi due aspetti potessero vivere scissi. 
A sentirla mentre si arrampica con la stessa agilità di uno scoiattolo su per tonalità che guardano in alto, molto in alto, per poi spiccare il volo, letteralmente, viene da pensare a quanto espresso, decisamente poco bene, da Francesco Renga a Sanremo, sul discorso delle frequenze e delle voci delle donne. Se è vero che le donne usano frequenti differenti dagli uomini, e così è, ovviamente, per una mera faccenda fisica, è anche vero, verissimo, che le frequenze toccate dalle donne, specie quelle che toccano i registri più alti, sono incommensurabilmente più belle di quelle che solitamente gli uomini riescono a produrre. Ora, avere una voce capace di ricreare, è il caso della Pompeo, suoni che, se non spiegati a voce, come lei ha fatto con me, fanno pensare al Theremin, potrebbe in sé essere più una condanna che un vantaggio, perché il virtuosismo fine a se stesso non è necessariamente un bene, lo dice uno cresciuto con il punk e con l’idea di urgenza, più che di perfezione), ma se a fianco al virtuosismo, tecnico, c’è una capacità di emozionare altrettanto potente, beh, allora siamo davvero di fronte a qualcosa di miracoloso. 
Non è un caso, non sarebbe potuta andare così, che questa mia carrellata di cantautrici, raccolte sotto il solito vecchio hashtag #LaFigaLaPortoIo, parta da lei. Da lei che, per stile e classe, apparentemente è quanto di più lontano alla provocazione da me ordita e messa in atto, ma in realtà altrettanto scandalosa, se non negli intenti almeno nei risultati. Perché la bellezza esibita, in un’epoca di distrazione e frammentarietà, così vaporizzata come quella nella quale stiamo vivendo, è puro scandalo. Di fronte alla sciatteria e al pressapochismo, puntare al bello deve scandalizzare. E scandalizza.
Anche richiedere attenzione, richiedere di fermarsi per ascoltare, per cogliere i dettagli, le sfumature, è qualcosa di scandaloso, forse, o quantomeno di poco naturale. Anche se poi, ripeto, è proprio l’essere naturale che colpisce nel modo di scrivere e di cantare della Pompeo, qualcosa che è talmente bello da non necessitare di ritocchi, parlassimo di una fotografia non avremmo né Photoshop né filtri, solo lei.
Non sono sicuro che questa opera rientri nei canoni della musica leggera, né francamente mi interessa saperlo. Non so neanche se tutto quanto ci siamo detti in un’ora e mezza di intervista trapeli da queste mie parole, se non, mi auguro, nel suggerimento di andarla ad ascoltare, cercare, sentire, vedere. Ma anche qui, chi se ne importa. Quello che so è che A Provincial Painter Moods è scandalosamente bello. E anche scandalosamente fuori da ogni logica. Quindi scandalosamente libero, e femmina. Proprio come piace a noi.


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