Veronica Pompeo, la voce che canta Dacia Maraini


[Credits: Fabio Perrone]
[Credits: Fabio Perrone]

Sei brani in cui la voce fa da regina, incantando chi ascolta. I brani sono quelli dell’Ep A Provincial Painter Moods (Rusty Records), lavoro nato dalle musiche di scena dello spettacolo A Provincial Painter di Dacia Maraini, composte dal pianista Domenico Capotorto. La voce è quella di Veronica Pompeo, che ha a sua volta composto nuove melodie e scritto nuovi testi, per una sorta di coda della prima opera, pensata per pianoforte solo. Veronica racconta a Yahoo questo suo esordio come autrice tout court, dopo un intenso passato come interprete classica e lirica e come vocal coach.

“L’opera di Dacia Maraini e le musiche di Capotorto mi hanno ispirata a creare un alter ego musicale, protagonista di un diario personale con il quale ho voluto far emergere ciò che in quel periodo mi frullava in testa, quando ero in piena corrente creativa”.

Cosa le frullava nella testa in quel momento?

Ero nel pieno di una rinascita, artistica e personale. Avevo appena fatto una scelta sofferta, professionale e umana decidendo di lasciare un’accademia in cui insegnavo canto. Quel ruolo mi stava invadendo l’anima e stavo perdendo la mia parte più creativa. Dopotutto interpretare è più semplice, anche se lo fai in maniera originale, che creare nuovo materiale. Per questo sono necessari spesso sofferenza e vuoto, e da lì sono rinata.

Lo spettacolo parla di emancipazione femminile attraverso l’arte, la vicenda di una ragazza che sogna di diventare pittrice. C’è del biografico?

Credo che la maggior parte delle giovani donne del Sud Italia abbia faticato a emergere, il contesto non favorisce l’emancipazione. Accadde anche a me a vent’anni, con le mie lotte in una famiglia che mi avrebbe più visto come una docente di lettere che come una musicista. E dire che io vengo da una famiglia di musicisti; eppure ho dovuto lottare per convincerli che quella era la mia strada. Ma credo che dai quei contrasti sia emersa la mia forza di venir fuori.

A proposito di contesto, nel titolo spicca la parola “provincial”: è una condizione, quella del provinciale, positiva o negativa?

Per me che vivo in provincia è una condizione naturale priva di connotazione denigratoria. Anzi, credo si sentano di più i legami con il proprio luogo di origine, che nel mio caso è Matera, e la propria famiglia. Si vive con ritmi più lenti rispetto alle metropoli e ciò rende più umano l’ambiente. C’è meno solitudine. In particolare, Matera quest’anno è capitale della cultura, vive un momento molto bello che spero dia frutti anche per il futuro. Poi è altrettanto ovvio che la condizione di provinciale porti a muoversi, ad andare via per cercare un’affermazione di se stessi. E ciò accade anche oggi, quando la comunicazione globale aiuta a fare luce su ciò che si sviluppa in ogni angolo del mondo. Io stessa, poi, mi sento sempre in un altro luogo, che può essere nei romanzi che leggo o nella musica che studio.

[Credits: ufficio stampa]
[Credits: ufficio stampa]

La sua è una vocalità estesa, che spazia su registri popolari e registri classici. Quanto è difficile passare dall’uno all’altro sul piano tecnico?

A me verrebbe da dire: quanto è difficile non farlo? Io ho cantato di tutto, ho fatto parte di gruppi rock da giovane. Poi è arrivato il Conservatorio, una strada quasi obbligata perché era vista come la fonte esclusiva di apprendimento musicale. E lì mi sono innamorata di quel tipo di vocalità, che comunque conoscevo perché la cultura del paese è quella del sud italiano, è cultura bandistica. E io avevo una banda di paese che provava nel garage di casa, sicché quella musica mi è rimasta dentro, e non abbandonerei mai quel tipo di vocalità E però allo stesso modo voglio cantare anche le melodie eterne dei cantautori il jazz di inizio secolo: nel disco c’è l’esplicita citazione di The Man I Love. Passare da un registro all’altro è naturale, mi fa dare sfogo alle voci che sono nella mia mente.

Come si fa a evitare che questa capacità non sembri un virtuosismo fine a se stesso?

Con la scrittura musicale. Il virtuosismo c’è quando è la scrittura che lo fa emergere. Quando ho scritto questi brani ho pensato invece a far vibrare le emozioni, non le doti vocali. Ho pensato a comunicare un pensiero, una vocalità che raccontasse i momenti specifici della protagonista del disco. C’è nel brano Waiting room un momento in cui la mia voce sembra un theremin, per via in un movimento laringeo preciso. L’ho concepito in studio di registrazione, come espediente per raccontare la confusione della protagonista: un movimento di pensieri vorticoso, uno spaesamento espresso con una voce che va in diverse direzioni. Ma attenzione, non volevo affatto ingannare l’ascoltatore con un colpo a effetto. Spero che questo intento sia stato percepito.

Il disco è dedicato a Fabrizio Frizzi. Perché?

L’ho conosciuto pochi mesi prima di lavorare al disco: facevo la vocal coach, ero a Tolentino ad accompagnare ragazzi a uno spettacolo di cui lui era presentatore. Mi ha affascinato la sua grandissima umanità, dote riconosciuta da tutti che davvero trapelava ogni suo poro. Dopo qualche mese, il giorno esatto in cui dovevo mandare i credits del disco al grafico, sento della sua morte. Mi sembrava impossibile: pochi mesi prima sembrava non avesse nulla. Cercando notizie a riguardo scopro in un’intervista che la canzone che legava lui alla moglie è tra le citazioni artistiche del mio disco. Ci ho visto un segno speciale, quindi ho deciso di dedicargli il lavoro.


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